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ITINERARI - SVILUPPO E PROGRESSO - SOCIETÀ COMPLESSE

DAL VILLAGGIO ALLA CITTÀ

I cacciatori-raccoglitori del Paleolitico che vivevano in aree montuose abitavano per lo più in caverne o sfruttavano ripari rocciosi; quelli che vivevano nelle pianure, dove i ripari naturali erano piuttosto rari, si costruivano invece rifugi o capanne. Almeno da questo punto di vista le pianure costituivano un ambiente poco ospitale, e, a quanto pare, furono conquistate dagli uomini solo in contemporanea (o quasi) alla scoperta delle prime tecniche agricole. Nel Vicino Oriente, ad esempio, non si conoscono stabili insediamenti umani in pianura prima dell'avvento dell'agricoltura.
Ciò che sappiamo su queste prime abitazioni costruite dell'uomo è per la verità poco preciso e le indicazioni che possiamo trarre dalle abitazioni dei popoli primitivi a noi contemporanee non sono affatto sicure. Alcune notizie sulle strutture e sulle funzioni di queste prime «case» si ricavano dai resti di abitazioni neolitiche sparsi nel Vecchio Mondo: nelle paludi del centro Europa, nei laghi della Svizzera, nei Tell del Medio Oriente o nel fango del delta del Nilo.
Certo, anche negli ambienti di pianura, esistono tracce di agglomerati di abitazioni che risalgono al Paleolitico (e ne abbiamo parlato diffusamente); si trattava però di insediamenti a carattere temporaneo, conformi ad abitudini di vita seminomade, e perciò completamente diversi da quelli del Neolitico. Non si può dire tuttavia che il nomadismo dei raccoglitori paleolitici sia scomparso del tutto con l'avvento dell'agricoltura. Poiché il terreno coltivato con tecniche primitive era soggetto a un processo di progressivo impoverimento, anche la popolazione dei più antichi villaggi neolitici era costretta a trasferirsi periodicamente in terre più fertili. L'agricoltura, però, anche nelle sue forme più rudimentali, aveva comportato quanto meno un prolungamento dei tempi di occupazione dei siti, tale da conferire agli insediamenti neolitici un carattere di continuità e di stabilità del tutto sconosciuto alle età precedenti.
I primi villaggi neolitici, i cui abitanti integravano le nuove attività agricole con quelle tradizionali della caccia e della raccolta, erano completamente autosufficienti. Costituito da un gruppetto di famiglie dove tutti seguivano lo stesso sistema di vita e partecipavano agli stessi lavori, ciascun villaggio era come un'isola rispetto agli altri e tale rimase fino a quando i trasporti e le comunicazioni non progredirono, in funzione, però, principalmente della nuova economia urbana. Il villaggio è stato l'unità elementare della società agricola, la sua cellula originaria. La moltiplicazione di tali cellule è stata la forma specifica della più antica espansione dell'agricoltura: quando la popolazione di un villaggio cresceva oltre le possibilità di sussistenza offerte dal territorio circostante, un gruppo di famiglie si spostava su terre ancora vergini e le colonizzava fondando un altro nucleo di abitazioni.
Il villaggio neolitico ha rappresentato un modello di organizzazione sociale e produttiva, che per molti aspetti non è più stato superato. In esso erano già presenti, ad esempio, gli elementi che contraddistinguono ancora oggi i centri agricoli: abitazioni stabili, private e collettive, granai, forni, ecc. La cultura del villaggio neolitico ha raggiunto la piena maturità attorno al V-IV millennio a.C.
A quell'epoca i villaggi avevano già un'estensione notevole ed erano costituiti di solide capanne di legno oppure, come avveniva frequentemente nelle regioni povere di legname, come la Palestina, di case costruite in mattoni di argilla cruda.
Particolare importante, i villaggi neolitici erano di solito sprovvisti di opere difensive, segno che almeno nei primi stadi della loro evoluzione i rari contatti tra le varie popolazioni agricole si svolgevano pacificamente. Abbiamo detto «di solito» perché, in verità, non mancano testimonianze in senso contrario. A Gerico, in Palestina, sono stati trovati i resti di uno dei più antichi villaggi agricoli che si conoscano, risalente all'8000 a.C.: ebbene, questo antichissimo insediamento era dotato di un sorprendente sistema di fortificazioni costituito da grandi mura e torri di pietra. Ciò significa che già agli inizi del Neolitico, almeno in questa parte della Terra, assieme all'agricoltura e alla vita sedentaria, era nata la guerra, che non era più la rissa occasionale di piccoli gruppi concorrenti, ma un'attività organizzata e dotata di tecniche specifiche.
Il villaggio neolitico rappresentava il modo di raggrupparsi di una comunità insediata nel suo territorio e dedita ad attività direttamente o indirettamente attinenti alla coltura dei campi. Con la fondazione delle prime città le strutture sociali presenti in embrione nel villaggio agricolo, si complicarono: assieme ad un'agricoltura più evoluta che conosceva ormai l'aratro ed i grandi sistemi di irrigazione, diventarono molto importanti l'artigianato e l'allevamento e ad essi si associò una attività umana quasi completamente nuova: il commercio. La città rifletteva insomma le possibilità offerte dalla nuova economia, che, con la formazione di importanti eccedenze alimentari permetteva di nutrire una popolazione composta oltre che da agricoltori, da specialisti produttivi (gli artigiani, tessitori, ceramisti, muratori, ecc.) o improduttivi (mercanti, funzionari, scribi e sacerdoti).
Nella sua evoluzione successiva la città finì con allontanarsi sempre più dal lavoro della terra per assumere il ruolo di centro direttivo, economico, religioso e militare di un vasto territorio agricolo ad essa soggetto. Anche le prime città della Mesopotamia nacquero probabilmente dall'esigenza di organizzare la conservazione delle eccedenze agricole e la ridistribuzione dei beni all'interno di una società che si poteva considerare abbastanza ricca. Il centro di aggregazione sociale era il tempio, le cui funzioni non erano esclusivamente religiose, ma piuttosto politico-amministrative. Si suppone infatti che proprio il tempio (nella persona dei suoi sacerdoti) avesse il compito di raccogliere i beni prodotti da agricoltori e artigiani e di provvedere alla loro ridistribuzione nel corpo sociale.
Abbiamo visto come una delle caratteristiche salienti dei primi villaggi agricoli fosse, almeno di norma, l'assenza di opere di difesa. In essi si conduceva una vita molto regolare, ritmata sui cicli naturali, fondamentalmente pacifica. Ma la necessità di difendere in maniera efficace i beni della comunità da eventuali aggressioni ha fatto nascere (talvolta precocemente, come nel caso di Gerico) il villaggio fortificato. Con la formazione delle città la guerra, che era apparsa agli inizi del Neolitico come fenomeno sporadico, si era ormai generalizzata. Centri di accumulo di potere e di ricchezze, le città finivano inevitabilmente per suscitare l'avidità e l'invidia dei vicini. La storia delle città è fin dall'inizio una storia anche di guerre. Le città antiche come Ur e Babilonia, in Mesopotamia, o Tebe, in Egitto, nella loro stessa struttura esprimono la lotta, l'aggressione, la dominazione: è di questo infatti che ci parlano le mura di cinta, i bastioni, le cittadelle, le torri e quegli strati di cenere, resti di antichi incendi, che gli scavi archeologici riportano alla luce dopo migliaia di anni e che sono la drammatica testimonianza di un'antica, diffusa violenza.

CATAL HUYUK

Catal Huyuk è un villaggio neolitico dell'Anatolia (odierna Turchia) situato a circa 200 km a Sud di Ankara.
Nato verso la metà del VII millennio a.C., fu anche un interessante centro «commerciale». L'avvicendarsi della fasi di occupazione umane sempre nello stesso posto ha creato una collinetta artificiale all'interno della quale gli archeologi hanno individuato ben 12 livelli di abitazione, separati, soprattutto i più antichi, da sottili strati di cenere, il che fa pensare a ripetuti incendi. La collina non è stata ancora completamente scavata, anche perché copre un'area di circa 13 ettari.
Lo stato di conservazione dei reperti, particolarmente buono, ha permesso di ricostruire un intero quartiere. Il caso ha voluto che quello portato alla luce fosse probabilmente il quartiere dei sacerdoti. Lo si deduce dal tipo di oggetti e di decorazioni che vi sono stati rinvenuti. Alcuni affreschi murali, i cui colori dominanti sono il rosso, il rosa, l'arancione, il nero e il bianco, rappresentano scene di culto, animali, danzatori vestiti di pelli di leopardo, divinità, fra cui sono raffigurati il toro e una sorta di dea madre (temi ricorrenti nelle decorazioni di molti oggetti). Scene molto interessanti sono quelle che paiono riguardare il culto dei morti, nelle quali alcuni avvoltoi attaccano dei cadaveri umani decapitati.
Si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad un agglomerato in qualche modo «pianificato». Le case appaiono infatti costruite tutte allo stesso modo e con mattoni di argilla seccata al sole tutti delle stesse dimensioni. I tetti, fatti di canne, erano probabilmente piatti, ricoperti di fango e sostenuti da travi di legno. Si accedeva all'interno dal tetto mediante una scala. Le abitazioni erano a pianta rettangolare, contenevano un focolare ed erano solitamente suddivise in due settori per mezzo di un ripiano di legno, su cui si abitava, mentre il pianterreno era adibito a magazzino; i locali ricevevano luce da piccole finestre aperte all'altezza del tetto. Fra le costruzioni, addossate le une alle altre, c'erano dei cortili.
Il materiale raccolto dagli archeologi è ricchissimo: vasi di ceramica molto raffinati, opere di scultura in pietra e argilla, uno strumentario litico assai complesso, basato quasi esclusivamente sulla lavorazione dell'ossidiana una roccia vetrosa simile allo smalto che proveniva da giacimenti vicini: era esportata nei territori limitrofi dove veniva scambiata con altri beni come le conchiglie marine e un certo tipo di selce detto «tabulare» per la sua struttura cristallina.
L'economia praticata a Catal Huyuk era di tipo agricolo, ma la caccia manteneva un ruolo importante. Venivano coltivati il frumento, l'orzo, i ceci e la veccia, e vi sono tracce di animali già addomesticati come la pecora, il cane e forse il bue. Particolarmente ricca era l'attività artigianale: sono stati ritrovati bellissimi esemplari di lavorazione dell'osso e del corno, specchi fatti con lastre di ossidiana, monili e collane abbelliti con pietre dure perforate. Alcuni di questi monili contengono piccoli frammenti metallici, il che non significa che la metallurgia fosse praticata, ma solo che c'era un certo interesse nei confronti del rame e del piombo «nativo» (ossia come lo si trova in natura) che dovevano essere apprezzati come pietre particolarmente belle e dotate di malleabilità.
La produzione di ceramica compare molto presto dopo una breve fase di Neolitico aceramico; la decorazione, contrariamente a quanto si ritrova nei siti circostanti, non è impressa né graffita: la ceramica lucidata, di colore scuro, veniva dipinta (negli esemplari più belli), oppure lasciata nuda.

ZIGGURAT, TELL, HUYUK

Le antiche popolazioni del Vicino Oriente avevano l'abitudine di costruire le loro città nello stesso posto in cui erano sorti gli insediamenti precedenti. Questa abitudine ha prodotto la formazione dei cosiddetti Tell o Huyuk («collina», rispettivamente in arabo e in turco), piccole colline artificiali che si elevano qua e là nelle vaste pianure, e che nascondono al loro interno una successione di strati archeologici che inizia con il Neolitico per giungere in qualche caso fino all'età moderna. A Eridu, sul basso corso dell'Eufrate, l'uso di costruire il tempio sulle rovine del precedente, o comunque inglobando le vecchie strutture architettoniche nelle nuove, è testimoniato dalla possente Ziggurat, una sorta di piramide composta dal lungo sovrapporsi di un tempio sull'altro. Ziggurat è il nome con cui si designano i grandi edifici per il culto eretti in Mesopotamia nel III millennio a.C. Quella di Ur misurava all'incirca 70 metri per 55 ed era alta più di 27 metri.

I METALLI E LE ARTI DEL FUOCO

I materiali con cui gli uomini, dal momento della loro comparsa e sino a tutto il Neolitico, si erano costruiti strumenti ed armi, e cioè il legno, la pietra, l'osso, il corno e simili, si trovavano in abbondanza un po' dovunque. Variava naturalmente la qualità di questi materiali e quelli particolarmente «buoni» (ossia adatti a certe lavorazioni) o particolarmente «belli» (ossia conformi a quel gusto estetico che, da un certo punto in poi, ha cominciato a condizionare il comportamento degli uomini), potevano risultare localmente scarsi o assenti. Di norma, tuttavia, la materia prima era abbondante e a portata di mano.
Gli uomini dell'età della pietra conoscevano molto bene le caratteristiche dei materiali che lavoravano e sicuramente, tra quelli disponibili entro una certa area, sapevano scegliere con cura i migliori. In questa quotidiana ricerca dei materiali da lavorare si imbattevano continuamente in minerali contenenti rame, ferro o altri metalli, molti dei quali si fanno notare per il loro colore. Alcuni di questi minerali erano infatti usati come coloranti: l'ematite, ad esempio, che è un ossido di ferro di colore rosso (l'ocra rossa), o la malachite che è un carbonato di rame di colore verde.
Certi metalli, come il ferro, sono molto abbondanti sulla crosta terrestre, ma, appunto, sotto forma di minerali, e cioè chimicamente legati con altri elementi, quali l'ossigeno, lo zolfo, il carbonio, il silicio. I metalli «nativi», ossia quelli che si trovano in natura allo stato puro, non combinati o mescolati con altre sostanze, sono invece piuttosto rari. L'oro e l'argento si possono trovare allo stato nativo in pagliuzze o in minuscoli grani. Il ferro nativo è soltanto quello delle meteoriti cadute sulla superficie terrestre, e non è affatto comune. Solo il rame si trova con relativa abbondanza sotto forma di ciottoli e lamine abbastanza grandi, e ciò spiega perché sia stato il primo metallo ad essere lavorato.
I metalli sono elementi chimici che si distinguono dagli altri per un insieme di caratteristiche: ad esempio, sono buoni conduttori di calore e di elettricità e presentano una lucentezza tipica, che si dice, appunto, «metallica». Probabilmente fu proprio questa lucentezza che attirò l'interesse dei nostri lontani progenitori su scaglie, pietruzze e grani di metallo nativo. In effetti i metalli furono usati in un primo tempo essenzialmente come materiale per monili e gioielli. Ma già nella fabbricazione dei gioielli i metalli rivelarono un'altra e più importante proprietà: quella di lasciarsi ridurre mediante martellatura in lamine sottili (malleabilità) o in fili sottili (duttilità) senza rompersi. Questa proprietà,, così diversa da quelle dei materiali tradizionali come la selce, l'osso e il legno, offriva nuove opportunità, soprattutto in rapporto alla molto più ampia varietà di forme che era possibile dare agli oggetti di metallo.
Negli scavi di un villaggio agricolo neolitico a Cayonii Tepesi (Turchia) si sono trovati alcuni oggetti di rame (due spilli, un alesatore) risalenti al 7000 a.C. circa. Essi costituiscono una delle testimonianze più antiche dell'uso intenzionale del metallo in quanto tale, e cioè non come una semplice pietra: erano stati ricavati infatti mediante molatura (levigatura) e martellatura da rame nativo. Anche per gli altri metalli che si trovano allo stato nativo (oro, argento e ferro meteorico) ci sono reperti del genere, che risalgono a epoche molto antiche. Ovviamente questo modo di lavorare il metallo non rappresentava ancora una vera e propria tecnica metallurgica, ma era piuttosto un'applicazione ai metalli delle tecniche di lavorazione della pietra.
Fra questo stadio primitivo di lavorazione e lo sviluppo di una metallurgia vera e propria c'era un lungo tratto da percorrere e ci vollero parecchi secoli per farlo. Durante tutto questo periodo e anche dopo, in piena età dei metalli, gli utensili di selce, di osso e di legno propri dell'età neolitica continuarono a essere usati correntemente. La cosa non deve meravigliare. Come prestazioni gli strumenti in pietra non erano inferiori a quelli di metallo. A un coltello di selce, per esempio, si può dare un taglio altrettanto affilato che a un coltello di metallo; in più, la selce si trova dovunque e le tecniche di lavorazione della pietra, a differenza di quelle metallurgiche, erano conosciute da tutti (o quasi). I vantaggi degli strumenti in metallo, rappresentati dalla maggior durata e dalla maggiore varietà di forme, erano largamente neutralizzati dall'alto costo di produzione. In effetti, fino al II millennio a.C. i manufatti in metallo furono rappresentati prevalentemente, se non esclusivamente, da armi, gioielli e oggetti di lusso ad uso di templi e di regge.
I fabbri primitivi erano soprattutto dei forgiatori. Lavorando i metalli con il martello, svilupparono la capacità di ottenere le forme volute e fecero l'importante constatazione che i metalli riscaldati si lavorano più facilmente: con tanto maggiore facilità quanto più alta è la temperatura raggiunta. Di fatto la metallurgia è stata, dopo la fabbricazione della ceramica, di cui ha utilizzato largamente le esperienze, la seconda di quelle nuove «arti del fuoco» che negli ultimi 10.000 anni hanno rappresentato un improvviso e rivoluzionario sviluppo delle antichissime tecniche di produzione del calore e di controllo della combustione.
L'innovazione che ha liberato la produzione metallurgica dai limiti derivanti dalla scarsità di metalli nativi, permettendo di attingere alle riserve pressoché illimitate (almeno per i bisogni dell'epoca) dei giacimenti minerari, è stata la messa a punto di un procedimento per separare i metalli dagli elementi (ossigeno, zolfo, silicio, ecc.) con cui si trovano normalmente combinati in natura. In verità si tratta non di un procedimento, ma di una serie di procedimenti diversi, a seconda dei metalli e degli elementi con i quali ciascun metallo si trova chimicamente legato.
Anche se diversi l'uno dall'altro, questi procedimenti fanno capo ad un unico processo, detto di «riduzione», nel quale l'ossigeno che nel minerale è combinato col metallo, a una certa temperatura, si separa da questo per unirsi a un altro elemento. L'apparato che consente alla reazione di svolgersi è la fornace, che all'origine era costituita da una semplice cavità praticata nel terreno e rivestita di argilla e di pietre (forno a coppa). Il minerale veniva mescolato con il combustibile e il fuoco era alimentato mediante qualche forma di tiraggio. L'ossigeno presente nel minerale si combinava con il carbonio contenuto nel combustibile e liberava il metallo. Più tardi, per meglio conservare il calore, il bordo superiore della cavità fu costruito con una concavità verso l'interno, mentre alla base furono praticati dei fori per spillare il metallo e per assicurare il tiraggio. Questo forno, detto «a crogiuolo», era ancora completamente interrato. In seguito, si eressero dei muri di pietra intorno alla coppa che fungeva da focolare (forno a tino). Il tiraggio poteva essere naturale o forzato. Per ottenere quest'ultimo il dispositivo più antico fu probabilmente un tipo rudimentale di mantice fatto a forma di sacco. Con l'introduzione del soffietto si poterono raggiungere temperature più alte e una migliore combustione che consentiva di risparmiare combustibile. La più antica testimonianza di uno strumento del genere risale al 1600 a.C. in Egitto. Consisteva di un recipiente di terracotta chiuso da una membrana e di un condotto laterale destinato a immettere l'aria nel focolare. Sollevando la membrana per mezzo di una cordicella il recipiente si riempiva d'aria attraverso un'apertura praticata nella membrana stessa.
Comprimendola poi con il piede, l'apertura si chiudeva e l'aria contenuta nel recipiente veniva spinta nel condotto laterale. Il mantice, un tipo di soffietto di forma triangolare in legno e cuoio, entrò in uso molto più tardi presso i Greci.

RAME E BRONZO

A temperatura ambiente i metalli (ad eccezione del mercurio, che è liquido) sono solidi, ma a temperature elevate fondono, ossia passano dallo stato solido a quello liquido. La temperatura a cui avviene la fusione si dice «punto di fusione» ed è diversa nei diversi metalli. Il ferro ha il punto di fusione piuttosto alto. Ottenere una temperatura così elevata presentava notevoli difficoltà tecniche e questo spiega perché la lavorazione del ferro sia iniziata più tardi delle altre.
Il rame fu il primo metallo ad essere utilizzato con una certa frequenza. Il passaggio dall'utilizzazione del rame allo stato nativo alla separazione del rame dai minerali che lo contengono avvenne in Egitto nel IV millennio a.C. La malachite, un carbonato di rame di colore verde che era usato fin dal V millennio come pigmento e specialmente come cosmetico per tingere le palpebre, è probabilmente il primo minerale che l'uomo abbia fuso per separarvi il metallo. È facile infatti trarre il metallo dalla malachite: se si getta un po' di minerale in un violento fuoco di legna se ne ricava una pallina di rame. All'inizio il rame fuso veniva versato su semplici cavità ricavate dalla superficie di un blocco di pietra o di argilla cotta e sagomata in modo tale da riprodurre la forma desiderata. Solo più tardi si riuscì a superare le difficoltà che presentano le colate in forme complesse: quelle, cioè, che richiedono stampi chiusi o divisi in due parti.
I primi utensili e le prime armi di rame si limitavano a riprodurre quelli già conosciuti di pietra: asce, scuri, daghe, scalpelli, seghe, ecc. Il metallo essendo in genere meno fragile della pietra permise di migliorare la sezione dell'utensile e renderlo più efficiente. L'attrezzo in rame, inoltre, durava di più e poteva essere ripetutamente affilato. Le daghe venivano costruite con una nervatura centrale che aumentava la rigidità laterale, il che permetteva di avere una lama più sottile e più lunga.
Con la messa a punto delle tecniche di fusione fu possibile fondere insieme due o più metalli. Si ottengono in questo modo miscele omogenee di metalli, dette «leghe», che presentano caratteristiche diverse da quelle dei metalli che le costituiscono, e che talvolta si prestano meglio di questi alla fabbricazione di utensili. È il caso del bronzo, una lega di rame e di stagno che ha finito con il dare il proprio nome ad un intero periodo della storia umana, dell'ottone, una lega di rame e zinco, e dell'acciaio, una lega di ferro e carbonio.
Il bronzo era già conosciuto verso il 3000 a.C. ed era di uso corrente in Egitto intorno al 2200 a.C. Le caratteristiche meccaniche di questa lega, specialmente la sua durezza, dipendono dalla proporzione in cui sono mescolati rame e stagno. Con un tenore del 10 per cento di stagno si riuscì ad ottenere una lega che, rispetto al rame, non solo presentava una resistenza alla rottura doppia, ma poteva essere lavorata con maggiore facilità, soprattutto nelle operazioni di colata in forme complesse.
L'introduzione del bronzo aumentò l'efficienza degli utensili e delle armi di metallo. Gli uni e le altre si diffusero ampiamente. Molti degli odierni arnesi di lavoro risalgono a quest'epoca: la mazza pesante, l'ascia con foro per il manico, lo scalpello e la lima, uno strumento quest'ultimo che sarebbe diventato essenziale per la lavorazione del metallo, ma che in quel tempo sicuramente poteva essere usata solo per lavori di carpenteria in legno (raspa). Si introdusse anche la spada, derivata dalla daga, la lama della quale, grazie alla maggior resistenza del bronzo, poté diventare molto più lunga, senza dover aumentare proporzionalmente la larghezza.

FERRO

Il più importante progresso realizzato nel campo della metallurgia fu senz'altro la scoperta di un metodo per estrarre il ferro dai suoi minerali (magnetite, ematite, limonite, siderite, ecc.). Non fu un'impresa facile per gli uomini dell'età del bronzo. La temperatura di fusione del ferro è molto più alta di quella del rame (1535 gradi C anziché 1083 gradi C). Le fornaci primitive riuscivano a raggiungere temperature capaci di fondere il rame, che si raccoglieva nella parte inferiore della fornace da dove veniva fatto colare, ma non il ferro. Quest'ultimo, infatti, nella fornace invece di colare assumeva l'aspetto di una massa spugnosa, costituita da impurità e da gocce di metallo puro, che il fabbro dell'età del bronzo deve avere considerato come del tutto inutilizzabile. Solo dopo molti tentativi, intorno al 1800 a.C., qualcuno riuscì a scoprire che quella massa spugnosa, ripetutamente riscaldata e battuta, si liberava delle scorie e le gocce di metallo venivano pressate insieme fino a diventare il cosiddetto ferro battuto.
Senonché il ferro battuto non presenta dei decisivi vantaggi sul rame: è più malleabile, ma meno duro. Il ferro quindi rimase di difficile produzione e di scarsa utilità. Solo molto più tardi, attorno al 1400 a.C., alcune popolazioni del Caucaso scoprirono il processo di «cementazione». Esso consiste nel riscaldare ripetutamente il ferro in contatto con carbone di legna in modo che il carbonio contenuto in quest'ultimo si diffonda sulla superficie del metallo, il quale acquista così una notevole durezza: diventa acciaio.
Subito dopo questa scoperta, si trovò che era possibile rendere l'acciaio ancora più duro immergendolo rovente in acqua: è la cosiddetta «tempra» dell'acciaio, un'operazione che, eseguita su altri metalli, può sortire effetti del tutto diversi (il rame e il bronzo, ad esempio, anziché indurirsi si ammorbidiscono). Si era così riusciti a ottenere un materiale di grande durezza e rigidità. Con esso si aprì una nuova epoca nella storia dell'umanità: l'età del ferro.
L'avvento del ferro segnò la progressiva comparsa di nuovi e migliori utensili, fra i quali sono da ricordare la tenaglia incernierata, indispensabile per forgiare i metalli ad alte temperature, la molla, l'incudine per fare i chiodi, la filiera per trafilare, la sega a telaio, la lima di ferro (che, temprata, poteva essere utilizzata non solo per i materiali teneri come il legno, ma anche per quelli duri) e il trapano con sezione a S (tale cioè che allorché viene fatto rotare, entrambi i tagli taglino in avanti). Il ferro permise inoltre di ottenere dei vomeri per gli aratri in grado di lavorare anche le terre più dure e a maggior profondità. All'inizio del I millennio a.C. l'uso del ferro si era diffuso in un'area che va dall'altopiano iranico al Tirolo. Ancora una volta, però, l'introduzione del nuovo materiale non significò la scomparsa dei vecchi: fino al VII secolo a.C. il bronzo fu usato nella costruzione di utensili in misura pressappoco uguale a quella del ferro.
Un grande progresso fu realizzato anche nel settore delle armi. Per esempio con l'introduzione del ferro, il colpo di spada non aveva più come limite la fragilità della lama, ma solo la forza del braccio umano. Gli eserciti che ne erano dotati divennero imbattibili. Gli Ittiti, una popolazione dell'Anatolia, furono forse i primi, verso la metà del II millennio a.C., a fare largo uso di armi in ferro, che, unite all'uso del cavallo e del carro da guerra con ruote a raggi permisero loro di fondare, a spese degli Egizi e dei Babilonesi che erano rimasti all'uso del rame e del bronzo ed erano del tutto privi di cavalleria, un grande impero destinato a durare quasi 4 secoli.
Mestoli e brocca decorata in bronzo del V sec. a.C.


METALLI E POTERE

Ogni nuovo metallo, rame, bronzo, ferro, e ogni nuovo perfezionamento nella sua lavorazione, ha significato un nuovo e importante progresso dell'uomo verso un più efficace controllo dell'ambiente, ma ha prodotto anche nuove occasioni di violenza e di diseguaglianza tra gli uomini. In epoca romana Plinio, nella sua Historia Naturalis, definiva così il ferro: «ottimo e pessimo strumento della vita umana, perché con esso fendiamo la terra, piantiamo gli alberi e seminiamo i giardini, e potando le viti le facciamo ogni anno ringiovanire; con esso fabbrichiamo le case, e spacchiamo le pietre; e usiamo il ferro per infiniti altri bisogni. Ma il medesimo ferro usiamo nelle battaglie, nelle uccisioni e nei latrocinii, e non solo da vicino, ma lanciandolo da lontano, o con le mani o con gli strumenti».
Monopolizzando l'armamento metallico il re, il faraone, il governatore, il capo, acquistavano sui propri soggetti un potere praticamente imbattibile. La possibilità o meno di avere del metallo in abbondanza condizionò in notevole misura lo sviluppo delle comunità, delle culture, delle civiltà. Gli Ittiti, che tra i primi conobbero il segreto della produzione del ferro e della sua trasformazione in acciaio, sostituirono questo al bronzo per le punte delle lance e delle frecce e per le spade. Con ciò il loro esercito acquistò una forza d'urto irresistibile. Essi tennero rigorosamente segreto il procedimento per la fabbricazione dell'acciaio. Quando verso la fine del XIV secolo a.C. un faraone egiziano scrisse a un re ittita, con il quale aveva appena concluso un trattato di amicizia, per chiedergli un rifornimento di ferro, il re ittita mandò le sue scuse «al suo fratello» e inviò soltanto, come dono, un pugnale. Questo pugnale fu tenuto in così alta considerazione dal faraone da meritare un posto fra i magnifici tesori della tomba del figlio, il celebre Tutankhamon, dove infatti è stato rinvenuto.
Quando l'impero ittita cadde (intorno al 1200 a.C.), i fabbri si dispersero dovunque. Alcuni di essi diedero agli Assiri il loro segreto e quindi le armi di acciaio che furono la condizione della rinascita degli Assiri. Questi, verso il 1000 a.C., cinti di ferro, discesero nelle regioni circonvicine «come il lupo sull'ovile». Il ferro fornì loro la maggior parte delle armi offensive e servì a rafforzare gli elmi, gli scudi, le tuniche e gli stivaletti di cuoio delle truppe scelte. Nel palazzo dell'imperatore Sargon II (VIII sec. a.C.) furono rinvenuti quasi 150.000 Kg di barre di ferro non lavorato che, con ogni probabilità, erano state importate da lontane regioni. Il rifornimento di un materiale così strategicamente importante non poteva essere lasciato all'iniziativa dei singoli fabbri che, del resto, non avevano neppure gli ingenti mezzi necessari per provvedervi. Lo Stato, quindi, acquistava direttamente il ferro, lo conservava nei magazzini esistenti in ogni città e lo forniva ai fabbri.
I popoli che non impararono a fabbricare l'acciaio furono condannati inevitabilmente alla sconfitta. Una testimonianza di un'epoca molto posteriore ci viene da Polibio (II secolo a.C.). Nelle sue Storie, egli racconta come i Romani ebbero facilmente ragione dei Celti sfruttando il fatto che le spade di questi ultimi «erano costruite in modo da avere efficace solo il primo colpo di taglio; si ottundevano facilmente, ripiegandosi tanto nel senso della lunghezza quanto in quello della larghezza e se i soldati non avevano il tempo di raddrizzarle col piede puntandole in terra, il secondo colpo risultava del tutto vano».
Dopo il 1000 a.C. la tecnica della lavorazione del ferro si diffuse un po' dappertutto in un tempo relativamente breve. Il fatto che i giacimenti di minerali di ferro si trovano praticamente in quasi tutte le regioni favorì questo processo. In Europa sono state individuate essenzialmente due grandi aree geografiche sviluppate dal punto di vista metallurgico: l'Europa centro-orientale, dall'Ungheria alla Svizzera, e la Scandinavia meridionale. Ci furono dei periodi in cui l'attività della lavorazione del metallo in tali zone superò in raffinatezza ed efficienza le aree del Vicino Oriente e dell'Europa sud-orientale.
L'introduzione di metodi sempre più efficienti ed economici di lavorazione del ferro permise di averlo a buon mercato. Il ferro penetrò quindi nella vita quotidiana, nelle campagne, sotto le forme più svariate di utensili e applicazioni. Divenne possibile lavorare le terre anche più dure e pietrose, liberarle degli alberi e scavare canali di drenaggio. Aumentò di conseguenza la superficie coltivata e la popolazione. Analogamente, si accrebbe l'efficienza delle manifatture.

FABBRO, FABBRICA, FORGIA

«Fabbro» viene dal latino faber che indicava genericamente l'operaio. Di quale operaio si trattasse era indicato dall'aggettivo che seguiva: il faber ferrarius era il lavoratore del ferro, il faber tignarius (da tignum = «trave») era il falegname, e così via. Fabrica, derivato di faber, indicava sia l'attività, sia l'officina del fabbro. In questo secondo significato da fabrica (o faurica) ferrea è venuto il francese forge, da cui l'italiano «forgia». La forgiatura (o «fucinatura») è il procedimento con il quale si dà la forma voluta a un pezzo di metallo sfruttandone la plasticità e cioè lavorandolo a caldo con martelli, magli o presse.

ECONOMIA PRODUTTIVA E SOCIETÀ COMPLESSE

Con l'espressione «economia di sussistenza» si indica l'economia di quelle popolazioni che non sono in grado di produrre stabilmente più di quanto consumano. Le bande di cacciatori-raccoglitori che si aggiravano per il mondo durante il Paleolitico, per esempio, salvo casi sporadici, raccoglievano o producevano beni materiali (cibo, utensili, armi, ecc.) destinati ad essere usati e consumati entro breve tempo. Riguardo al cibo, in particolare, le loro capacità tecniche non permettevano né di conservarlo a lungo, né di produrne in quantità tale da costituire scorte men che modeste. Gli scambi fra i vari gruppi erano molto ridotti, ed era assai difficile che un gruppo potesse fermarsi a lungo in un posto. La pratica del nomadismo, anzi, era la regola, soprattutto in quegli ambienti in cui il clima variava notevolmente da una stagione all'altra: in questo caso, infatti, poiché durante l'inverno la vegetazione commestibile si fa rara, bisognava seguire le mandrie nelle loro migrazioni in cerca di pascoli.
L'economia che possiamo chiamare «produttiva» comparve più tardi, con l'avvento dell'agricoltura, quando divenne possibile produrre una quantità di beni superiore a quella strettamente necessaria alla sopravvivenza del gruppo. È in questo momento che, superato il tradizionale nomadismo dei gruppi di raccoglitori-cacciatori, sono nati i primi insediamenti stabili con strutture architettoniche permanenti. Ed è in questo momento che sono comparse le prime forme evidenti di gerarchia o di rigida divisione di ruoli fra i membri di uno stesso gruppo.
L'economia produttiva è caratterizzata dall'esistenza di un «sovrappiù» (o surplus) di beni. Questo sovrappiù può avere destinazioni diverse: lo si può, per esempio, consumare subito, con il che, probabilmente, si realizza un miglioramento nella qualità della vita di tutti o di parte dei membri del gruppo; oppure lo si può usare per costituire scorte in vista di bisogni futuri e di possibili situazioni di emergenza; oppure, ancora, lo si può scambiare con beni prodotti da altri gruppi umani. In effetti, quando le pratiche agricole consentirono che un campo producesse stabilmente più del fabbisogno immediato degli uomini che lo lavoravano, si svilupparono tecniche di conservazione del cibo e meccanismi di accumulazione e di ridistribuzione delle ricchezze che richiedevano un'organizzazione sociale incomparabilmente più complicata di quella caratteristica dei gruppi di cacciatori-raccoglitori.
La grande innovazione connessa all'economia agricola e alla formazione di un sovrappiù consisteva nel fatto che una parte della popolazione poteva ormai vivere attingendo alle eccedenze prodotte dal lavoro altrui. In altre parole, una parte della popolazione poteva consumare tutti i beni necessari al proprio sostentamento senza doversi occupare direttamente della loro produzione: liberata dalla necessità di procurarsi il cibo (o altri beni primari), aveva la possibilità di impiegare il proprio tempo in altre attività. Questa situazione favorì una generale e accentuata divisione del lavoro, che comportò, almeno di norma, una maggiore efficienza delle tecniche produttive e perciò una sempre più stabile e larga formazione di eccedenze.
Nell'ambito delle economie caratterizzate da un'accentuata divisione del lavoro si possono facilmente distinguere tre diversi settori di attività. L'insieme delle attività agricole e di allevamento (eventualmente integrate da quelle della caccia, della pesca e della raccolta) costituisce il settore che chiamiamo «primario». In quello detto «secondario» rientrano le attività (come ad esempio l'artigianato, le costruzioni, ecc.) che consistono nel trasformare le materie prime in manufatti. Come si vede, tutte le attività comprese in questi due settori hanno per oggetto la produzione di beni materiali. Il cosiddetto «terziario», invece, comprende le professioni che non producono beni, ma servizi; è il settore dei servitori, dei mercanti, dei guerrieri, dei sacerdoti, dei poeti, e di tutti quei personaggi il cui compito essenziale consiste nell'organizzare e dirigere il lavoro altrui, nell'amministrare le ricchezze prodotte dagli altri e, in definitiva, nel decidere per gli altri.
In qualsiasi società in cui la divisione del lavoro sia sufficientemente sviluppata, ad ogni funzione socialmente utile corrisponde una «remunerazione sociale»: il sarto che fa abiti per tutti e il muratore che costruisce o ripara le case di tutto il villaggio, anche se non producono grano e non cacciano la selvaggina, hanno diritto ad una porzione del grano prodotto dai contadini o della selvaggina catturata dai cacciatori. Questa porzione (che è tanto più grossa quanto maggiore è l'utilità riconosciuta alla loro attività) è la loro remunerazione sociale. La remunerazione sociale non è fatta però soltanto di beni materiali, e qualche volta, anzi, i beni materiali, per quanto indispensabili, non sono affatto la cosa principale. Accade cioè che il rispetto, l'affetto o il timore che i membri della collettività manifestano verso chi esercita una certa funzione, ossia il prestigio di cui questa funzione gode, costituiscano una remunerazione ancora più importante della quantità di beni a cui dà diritto. C'è poi una funzione sociale che, per così dire, si remunera da sé: l'esercizio del potere ossia la facoltà di decidere per gli altri e degli altri, che è insieme un servizio, di cui nessuna società organizzata può fare a meno, e un piacere, a cui tutti (almeno in generale) aspirano.
In ogni settore di attività esistono mansioni che implicano l'assunzione di decisioni a cui gli altri debbono adeguarsi: anche nelle più primitive bande di cacciatori c'è un capo-caccia che ha il compito, magari soltanto per il tempo di una battuta o di una spedizione, di dirigere l'operato di tutti. Nelle società evolute queste mansioni tendono a fissarsi in vere e proprie professioni, alcune delle quali, in special modo quelle attinenti all'amministrazione e al governo della collettività in generale, sin dagli inizi della civiltà urbana hanno goduto di un apprezzamento nettamente superiore a quello riservato alle mansioni puramente esecutive o alle attività manuali legate alla produzione materiale dei beni: queste professioni hanno pertanto beneficiato di remunerazioni sociali più elevate.
Così, dalla relativa abbondanza di beni garantita dall'avvento dell'economia produttiva e dalla conseguente formazione di larghe eccedenze è nata (assieme ad un'accentuata divisione del lavoro e alla separazione delle funzioni amministrative e di comando da quelle immediatamente produttive) la diseguaglianza tra gli uomini, e cioè la divisione della società in classi contrassegnate non solo dalla diversità delle mansioni, ma anche (e soprattutto) dall'ineguale distribuzione del potere, del prestigio e della ricchezza.

L'UOMO, LA TERRA E IL LAVORO

Il latino humus si rifà a un'antichissima radice indoeuropea che significa «terra». Alla stessa famiglia appartiene homo, l'uomo, creatura terrena per eccellenza, in opposizione agli Dei, creature celesti. Ma alla stessa famiglia di humus appartiene anche humilis, «umile», nel significato letterale di «aderente alla terra» e perciò «basso, spregevole». Più umili di tutti, nel senso di vicini alla terra, sono da sempre i contadini, il cui atteggiamento consueto quando lavorano è di star chini al suolo. Ma «umili» i contadini lo sono anche nel senso che da sempre costituiscono una classe sociale inferiore; e questa loro umiltà l'hanno trasmessa a tutti gli altri lavoratori manuali. Classi inferiori, classi umili, classi lavoratrici sono da sempre sinonimi.
L'idea del piegare la schiena è presente già nell'etimologia di «lavorare». Il latino labor significa lavoro, ma soprattutto nel senso negativo di fatica: evidentemente connesso a labare, «vacillare, barcollare» e a labi, «scivolare strisciare, cadere in terra», richiama l'immagine di chi si piega sotto un peso eccessivo o di chi, come il contadino, si curva verso terra come se cadesse. In francese labourer ha conservato il significato di attività faticosa, legata alla terra, e se in un primo tempo era usato anche in senso generico, a partire dal Seicento quel significato ha finito con il prevalere nettamente: labourer è diventato il termine tecnico per indicare uno specifico (e faticoso) lavoro agricolo: l'aratura.
L'idea del lavoro come sofferenza (che richiama alla memoria il racconto del Genesi a proposito della condanna di Adamo a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte) si è conservata in molte lingue e dialetti neolatini: quelli, per esempio, che usano «faticare» come sinonimo di «lavorare», oppure quelli che hanno adottato al suo posto un termine derivato dal latino tripalium che era uno strumento di tortura e di morte costruito, come suggerisce il nome stesso, con tre pali: è il caso del francese travailler, dello spagnolo trabajar, del piemontese travaié, del genovese travagià, del siciliano travagghiari, del sardo traballari, ecc.
Ma il valore del lavoro è sempre stato ambiguo: di volta in volta nobilita e asservisce. In latino c'è un altro gruppo di termini che servono a designare il lavoro, ma con una connotazione positiva: opera, che indica il lavoro nel senso di «attività lavorativa», e opus, che significa lavoro nel senso di «ciò che è stato prodotto». La radice di entrambi è la stessa di ops che vuol dire «ricchezza, potenza, autorità»: il lavoro qui è un bene, ed anzi è la fonte di ogni bene. Se da ops viene «opulenza», da opera viene «operaio» (ouvrier in francese, obrero in spagnolo, ecc.), e da opus, attraverso i suoi composti opifex (= «lavoratore»: -fex, da facere, indica colui che fa qualcosa, in questo caso un lavoro) opificium e opificina vengono «opificio», «ufficio» e i suoi derivati, «officina» e «fucina».

LE PIRAMIDI E LA SOCIETÀ EGIZIA

Le piramidi d'Egitto furono costruite in tempi antichissimi. La prima piramide propriamente detta è quella del faraone Gioser della III dinastia, il cui regno iniziò nel 2700 a.C.; la loro funzione era di ospitare le spoglie mortali del faraone e di parte del suo seguito, e di proteggere i tesori del corredo funebre da eventuali saccheggiatori. Si comprende subito che per la costruzione di questi poderosi monumenti fu necessario un enorme dispendio di energie: migliaia di uomini dovevano lavorare per anni, tagliando e rifinendo i grandi blocchi di calcare, trasportandoli sul sito del cantiere, mettendoli in posa e ricoprendoli.
Il materiale necessario per la costruzione veniva estratto da cave di calcare nelle vicinanze del cantiere, caricato su slitte trascinate da decine di uomini fino alle rampe costruite in mattoni di argilla cruda che dovevano permettere la posa dei blocchi. Tali rampe partivano dai quattro lati della piramide e, a mano a mano che la costruzione cresceva, venivano allungate lungo un percorso a spirale intorno alla costruzione con pendenze intorno al 20 per cento, giungendo fino alla sommità. Alcune di queste venivano interrotte e smantellate durante il lavoro, quando i fianchi della piramide si restringevano troppo per contenerle tutte. Succedeva a volte che il progetto iniziale dovesse essere corretto perché troppo ambizioso, come nel caso della piramide del faraone Snofru, la quale era stata pensata troppo alta e quindi con una pendenza critica dei suoi quattro lati. Circa a metà costruzione ci si accorse che tale inconveniente avrebbe compromesso la stabilità e quindi fu fatta più bassa, riducendo la pendenza dei lati e ottenendo un curioso profilo romboidale.
Secondo la tradizione, per la costruzione della piramide di Cheope, una delle più imponenti, sarebbero stati impiegati per un periodo di 20 anni circa 100.000 uomini, che si avvicendavano con turni di 3 mesi. È stato appurato che tali cifre non sono affatto esagerate. Calcolando l'attrito delle slitte sul terreno si è trovato che un masso del peso di 2500 kg, come quelli usati in tali costruzioni, doveva essere trascinato da una sessantina di persone sul piano e da un centinaio sulle rampe. Le slitte formavano dunque una lunga colonna, che andava dalla cava al cantiere. Tra una slitta e l'altra doveva esserci una distanza di circa 50 m. Nel cantiere, oltre agli operai, c'era il personale necessario a rifornire questi ultimi di acqua e viveri, e quello addetto alla manutenzione degli attrezzi di lavoro. Basandosi sull'ipotesi che tutta l'area fosse utilizzata secondo un criterio ottimale di risparmio di energie, si è calcolato che le persone presenti contemporaneamente nel sito della costruzione dovessero oscillare tra le 33.000 e le 52.000. Supponendo turni di avvicendamento di 3 mesi circa, le cifre fornite dalle fonti antiche risultano del tutto realistiche.
Per capire meglio che cosa queste cifre significassero le si può confrontare con le stime che siamo in grado di formulare relativamente alla popolazione dell'antico Egitto. Secondo un censimento effettuato nel I secolo a.C., l'Egitto contava circa 7 milioni di abitanti; ammettendo che la popolazione fosse cresciuta nei secoli precedenti con un tasso di incremento annuo dello 0,36 per mille (che molti studiosi considerano del tutto probabile), si può calcolare che intorno al 2700 a.C. in Egitto vivessero più o meno 3 milioni di persone. Su queste, la popolazione attiva, ossia la massa delle persone atte al lavoro, non doveva superare il milione.
La costruzione delle piramidi impegnava dunque un'alta percentuale di tutta la manodopera disponibile. Per affrontare imprese di queste proporzioni erano necessarie un'organizzazione efficiente e una solida struttura statale. In effetti le prime piramidi comparvero solo dopo l'unione del Basso e dell'Alto Egitto sotto un'unica potente monarchia. Alcuni studiosi hanno messo in relazione la dimensione delle piramidi fatte costruire dai faraoni delle prime dinastie con le strutture dell'antico Stato egizio. La grandiosità di tali opere sarebbe insomma un buon indice della capacità amministrativa dello Stato. La piramide di Cheope, ad esempio, innalzata durante il periodo più florido per lo Stato, è alta 146 m, e si calcola che abbia richiesto l'estrazione e il trasporto di qualcosa come 2.640.000 mc di calcare, impresa davvero ciclopica, se si pensa che gli Egizi disponevano soltanto della leva e del piano inclinato.
La manodopera necessaria per queste imprese veniva reclutata con un sistema di corvée che nell'antico Egitto esisteva da tempi immemorabili e che è rimasto pressoché inalterato per millenni: lo si è utilizzato ancora nel secolo scorso per la costruzione del canale di Suez. Corvée è una parola francese che deriva dall'espressione latina opera corrogata, che significa alla lettera «lavoro a cui si è invitati a partecipare insieme ad altre persone»: rogare vuole infatti dire «chiedere, pregare». Naturalmente qui le preghiere non c'entravano affatto: semplicemente la popolazione contadina era costretta a lavorare gratuitamente per il faraone per un certo periodo dell'anno.
Per realizzare opere dispendiose come le piramidi, oltre alla manodopera, era necessario disporre anche di notevoli scorte di beni di ogni genere. Le condizioni per un tale accumulo di ricchezza non esistettero fino all'inizio del Regno Antico. Con le prime dinastie di faraoni, però, avvennero alcuni grossi cambiamenti. La tradizionale agricoltura di sussistenza, ancora praticata nei villaggi, non sarebbe stata sufficiente a mantenere l'apparato amministrativo e militare dello Stato, ossia i funzionari e i soldati del faraone. Si rese pertanto necessario un intervento statale diretto ad aumentare la produzione agricola. Ricorrendo alle corvée contadine, i faraoni fecero livellare il terreno per favorire l'allagamento naturale da parte delle acque del Nilo e costruirono a poco a poco un'enorme rete di canali di irrigazione. Istituirono poi la magistratura dei controllori delle acque, incaricata della manutenzione di tutte queste opere e della sorveglianza sulle risorse idriche del Paese. Istituirono anche un catasto per censire le proprietà terriere e stabilirono che dovesse essere aggiornato ogni due anni. Ma soprattutto, si impadronirono delle terre su cui facevano costruire opere di irrigazione o simili. In questo modo, mentre il faraone diventava il più grande proprietario terriero dell'Egitto, i contadini venivano trasformati in dipendenti dello Stato.
Al termine di questa fase di intensi cambiamenti, la produttività agricola era effettivamente cresciuta: con la nuova organizzazione un minor numero di contadini era in grado di produrre più di quanto in precedenza non facesse l'intera popolazione dei villaggi. Era un risultato molto soddisfacente, che però aveva determinato una preoccupante situazione di «disoccupazione»: si era formata cioè un'eccedenza di manodopera che non poteva più trovare impiego nell'agricoltura e rischiava di restare inutilizzata. Nello stesso tempo lo Stato si trovava ad avere, per effetto dall'accumulo dei surplus agricoli, una larga disponibilità di beni che dovevano essere in qualche modo consumati. Le piramidi (o altre simili opere pubbliche) erano un modo per impiegare questo sovrappiù di uomini e di risorse. Sarebbe azzardato affermare che le piramidi siano state costruite soltanto a questo scopo. È certo però che, se da un lato la loro costruzione servì anche a risolvere il problema della disoccupazione contadina, dall'altro essa fu resa possibile proprio dall'esistenza di forti eccedenze di beni e di manodopera.
Per la costruzione delle piramidi non erano necessari solo manovali. Anche più importante, anzi, era la richiesta di personale qualificato, ingegneri, architetti, scribi, pittori, scultori, amministratori, mercanti, artigiani. Tutte queste categorie erano destinate ad ingrossare le file dei cortigiani e dei funzionari di vario tipo alle dipendenze del faraone, ossia dello Stato. Questa tendenza all'aumento dei funzionari proseguì senza problemi per un certo tempo, finché, cioè, la produzione di ricchezza continuò a crescere; raggiunto però il livello che potremmo chiamare «di saturazione» del sistema, cominciarono le difficoltà. Il faraone non poteva più contare su un aumento indefinito delle risorse disponibili, mentre la sua corte, che costituiva ormai un ampio ceto di privilegiati e aveva acquisito un alto livello di consumi, si mostrava propensa a consumare sempre di più. In altre parole il surplus agricolo diminuiva costantemente, mentre le spese della corte crescevano. La conseguenza fu un lento decadere dell'efficienza dello Stato e delle condizioni economiche del Paese. Anche le piramidi diventarono meno imponenti: da quella di Cheope si passò a quella di Chefren, un po' più piccola, e ad altre sempre più piccole, fino a che l'ultimo faraone della IV dinastia, non se ne fece costruire affatto.
Sovrapposizione virtuale dello stato attuale della necropoli di Saqqara

Ricostruzione virtuale della necropoli di Saqqara

Ricostruzione della piramide di Djoser (o Zoser) a Saqqara

Veduta del recinto sacro della dea Hathor a Dendera con sovrapposizione virtuale dello stato attuale dell’area

Karnak: volo virtuale con avvicinamento al recinto sacro di Ammone

Karnak: ricostruzione del tempio di Ammone con sovrapposizione dello stato attuale dell’area

Luxor: volo virtuale sull’area del recinto sacro di Ammone

Luxor: ricostruzione del tempio di Ammone e sovrapposizione dello stato attuale dell’area

Deir el-Bahri: volo virtuale sull’area del tempio funerario della regina Hatscepsut

Veduta della ricostruzione del tempio funerario della regina Hatscepsut sovrapposta all’immagine dello stato attuale dell’area

Veduta della ricostruzione del villaggio e del tempio di Hathor, a Dendera, sovrapposta all’immagine dello stato attuale dell’area

BENI E MERCI

In economia si chiama «bene» tutto quello che può servire alla soddisfazione di un bisogno: ogni cosa che presenti qualche utilità o che abbia (come anche si dice) un qualsiasi «valore d'uso» è un bene. Sono beni, dunque, l'aria che respiriamo, il pane di cui ci nutriamo, l'abito che indossiamo, l'automobile con cui andiamo in giro, ecc. I beni economici si possono raggruppare in varie categorie. Si distinguono per esempio i beni «immobili», che sono quelli che fanno corpo con il suolo (la terra, i corsi d'acqua, gli edifici, ecc.) dai beni «mobili», che sono tutti gli altri. Si distinguono ancora i beni «di consumo», che sono i prodotti destinati al consumo immediato (e che, come il pane, ad esempio, nel consumo vengono distrutti) dai beni «capitali» o «mezzi di produzione», che sono invece tutti quei beni la cui utilità consiste appunto nella produzione di altri beni (es: macchine, attrezzi, ecc.). Si parla di «beni di consumo durevoli» a proposito di quei beni di consumo, come l'automobile o gli elettrodomestici, che possono essere usati ripetutamente.
Alcuni beni hanno la proprietà di essere «merci», ossia di poter essere scambiati con altri beni in quantità determinate. Questa proprietà è quel che si chiama «valore di scambio». Un bene può avere un altissimo valore d'uso e un valore di scambio nullo: l'aria, ad esempio, non solo è utile, ma indispensabile alla vita, eppure nessuno (almeno di norma) paga per respirarla. L'aria, dunque, non ha alcun valore di scambio, non è una merce. Viceversa ci sono delle merci che hanno un valore d'uso piuttosto basso e un valore di scambio altissimo: è il caso dei gioielli, che costano molto cari e sono quasi inutili (soddisfano il bisogno di farsi belli, che è molto antico e diffuso, ma non è certo un bisogno primario). Naturalmente nessuna merce può essere totalmente priva di valore d'uso (totalmente inutile), perché altrimenti nessuno la richiederebbe in cambio di qualche altra cosa; ma il valore di scambio di una merce non è affatto proporzionale al suo valore d'uso.
In che cosa consiste dunque questo valore di scambio e, più in generale, che cosa induce gli uomini a scambiarsi delle merci? Per capirlo converrà partire da un esempio molto semplice: quello di un contadino che va al mercato per vendere il suo grano e per comprare della stoffa con cui intende farsi un vestito nuovo. Il contadino fa un duplice scambio: la prima volta dà una merce (il grano) e riceve denaro, la seconda volta dà denaro e riceve una merce (la stoffa). La regola generale di tutti gli scambi commerciali è che ciò che si dà abbia lo stesso valore di ciò che si riceve in cambio; altrimenti non si tratta di scambi commerciali, ma di truffe. In queste sue operazioni, dunque, se non ha truffato nessuno e se non è stato truffato da nessuno, il contadino non ha né guadagnato né perduto: ha venduto il grano al suo valore e ha acquistato la stoffa al suo valore. Ma allora, chi glielo ha fatto fare?
Il fatto è che il contadino può consumare solo una parte del grano che ha raccolto e il resto del grano non gli serve, ossia non ha per lui nessun valore d'uso; ha però un valore di scambio, nel senso che può venderlo e realizzare così in moneta sonante il suo valore. D'altra parte il contadino ha bisogno di coprirsi, sicché la stoffa ha per lui un alto valore d'uso e, poiché non è in grado (o non ha voglia) di fabbricarsela con le sue mani, deve comprarla pagando al venditore il suo giusto valore (di scambio). Anche se non ci ha guadagnato neppure una lira, liberandosi del grano di cui non aveva bisogno e procurandosi la stoffa che gli è necessaria, il contadino si è comportato in modo assolutamente razionale.
Anche il commerciante di stoffe al quale il contadino si rivolge per il suo acquisto, personalmente non sa che cosa farsene di tutte le stoffe che ha in negozio; può soltanto venderle e con il ricavato della vendita acquistare altre merci (per esempio il grano) di cui invece ha bisogno. Se ha venduto le stoffe al loro valore, e se ha comprato le merci di cui ha bisogno al loro valore, senza truffare nessuno e senza essere truffato da nessuno, anche lui, come il contadino, non ha né guadagnato né perduto (in termini di valore di scambio), ma ha fatto ugualmente il suo interesse (in termini di valore d'uso).
Una differenza tra il contadino e il commerciante di stoffe sembra tuttavia esserci. Il contadino vende per comprare: vende il grano da lui stesso prodotto e compra la stoffa che gli serve per il vestito. Il commerciante invece non produce un bel niente e il suo mestiere è proprio quello di comprare per rivendere: compra stoffe da chi le fabbrica e le rivende a chi ne ha bisogno. E qui sembra proprio che ci guadagni: se infatti per una stoffa paga 100 al produttore, la rivende poi a 150 al contadino. Come mai una stoffa che costa 100 a prezzo di fabbrica costa 150 a chi la compra al negozio? Il contadino farebbe forse meglio a rivolgersi direttamente al produttore di stoffe, tagliando fuori il commerciante e risparmiando la differenza. Il contadino, anzi, potrebbe consegnare direttamente il suo grano al produttore di stoffe (che certamente ne ha bisogno, come tutti, per mangiare) e ricevere in cambio la stoffa: in questo modo farebbe a meno anche del denaro.
Qualche volta succede appunto così: lo scambio diretto delle merci si chiama «baratto» ed è la più antica forma di commercio, un'attività che ha preceduto la comparsa del denaro. In pratica, però, almeno nelle società complesse, dove esiste un'accentuata divisione del lavoro, non conviene quasi mai ricorrere al baratto. Il contadino del nostro esempio, infatti, non ha bisogno solo di stoffe, ma anche di scarpe, di attrezzi, di libri, ecc. Scambiare piccole porzioni del suo grano con tutte le merci di cui può avere bisogno gli costerebbe una gran fatica. Ogni scambio diventerebbe una cosa tremendamente complicata. La funzione del denaro è appunto quella di eliminare una parte di queste complicazioni. Quanto al commerciante, il suo lavoro consiste proprio nell'agevolare gli scambi: compra all'ingrosso e rivende al minuto; rende accessibili ai consumatori merci che altrimenti sarebbe difficile trovare e aiuta i produttori a vendere i propri prodotti. La stoffa che vende ai suoi clienti è esattamente la stessa che è uscita dalle mani del produttore, ma vale di più, perché il lavoro del commerciante l'ha resa accessibile al compratore, risparmiandogli un sacco di fastidi.
Il che si può esprimere dicendo che il commerciante non produce materialmente cose ossia beni, ma servizi; e che i servizi, anche se non sono «cose», sono però merci nel senso che hanno anche loro un preciso valore di scambio. Nel nostro esempio questo valore è rappresentato dalla differenza tra il prezzo che la stoffa ha alla fabbrica e quello che ha al negozio. Certo, può accadere che un commerciante aumenti arbitrariamente il prezzo delle sue merci; di norma, però, le vende al loro valore, che naturalmente comprende anche il valore del servizio prestato dal commerciante.
Come si fa a determinare il valore di scambio di una merce in generale (bene o servizio che sia)? Secondo la teoria detta del «valore-lavoro», che è stata elaborata tra Sette e Ottocento da alcuni grandi economisti come Adam Smith (1723-1790), David Ricardo (1772-1823), Karl Marx (1818-1883) ecc. il valore di una merce dipende dalia quantità di lavoro direttamente e indirettamente necessaria per produrla. Tutte le merci hanno una caratteristica comune: sono prodotti del lavoro umano. Si può dire, anzi, che tutte le merci siano lavoro umano realizzato nel senso che nella produzione di merci il lavoro si materializza, diventa esso stesso in qualche modo «cosa». Secondo la teoria del valore-lavoro, insomma, la quantità di lavoro umano incorporato in una merce (bene o servizio che sia) darebbe la misura del valore di scambio della merce stessa.
Come si fa a misurare quanto lavoro è incorporato in una merce, per esempio in un apparecchio televisivo? Si dovrà calcolare innanzi tutto il lavoro direttamente impiegato nella fabbricazione dell'apparecchio televisivo stesso. Ma in questa fabbricazione sono stati impiegati e consumati, oltre al lavoro, dei mezzi di produzione (materie prime, energia elettrica, macchine ed edifici). Si dovrà quindi tenere conto anche del lavoro precedentemente speso nella fabbricazione di tali mezzi di produzione. Anche la produzione di questi ultimi ha richiesto lavoro e anche di questo si dovrà tenere conto e così ripercorrere all'indietro tutte le successive fasi del processo produttivo. Alla fine la quantità di lavoro potrà essere espressa molto esattamente in ore di lavoro, o in frazioni di ore.
Senonché il lavoro è sempre lavoro di qualcuno e ogni lavoratore è diverso da ogni altro: c'è chi è più bravo e chi meno, chi è più svelto e chi più lento e così via. Diverse sono, soprattutto, le condizioni tecniche in cui ciascuno opera: un lavoro fatto a macchina richiede di solito meno tempo di un lavoro fatto a mano. Come è possibile, allora, usare il lavoro come misura del valore di una merce se il tempo di lavoro dipende caso per caso da una quantità indefinita di fattori diversi?
La risposta è piuttosto semplice: il lavoro che misura il valore di una merce non è il lavoro effettivamente speso nella fabbricazione di quella particolare merce, ma il tempo di lavoro che è necessario in media a produrre quel tipo di merce in date condizioni tecniche e sociali. Così, se per fabbricare bulloni si adoperano normalmente delle macchine, chi si metterà a produrre bulloni servendosi di semplici attrezzi manuali impiegherà un'infinità di tempo in più, ma il prodotto del suo lavoro non acquisterà per questo un valore superiore: ci sarà semplicemente uno spreco di forza lavoro. Viceversa, se un certo oggetto viene comunemente fabbricato a mano, chi fosse in grado di fabbricarlo a macchina impiegherebbe meno tempo, ma il suo prodotto non perderebbe per questo di valore: al contrario, impiegando meno forza lavoro, e cioè producendo a costi più bassi, il fabbricante dotato di macchine godrebbe di un margine di guadagno maggiore di quello dei suoi concorrenti.
Nelle moderne società industriali è proprio la prospettiva di questo più ampio margine di guadagno (misurato dalla differenza tra il tempo di lavoro in media necessario a produrre una data merce e il minore tempo di lavoro realizzabile con metodi e impianti innovativi) che costituisce l'incentivo più forte al progresso tecnico. È evidente che quando una innovazione tecnica si generalizza (ossia viene adottata normalmente da tutti i produttori) il vantaggio di chi l'ha introdotta si annulla: il valore delle merci, infatti, non può che adeguarsi al nuovo livello tecnico, diminuendo in proporzione alla diminuzione della quantità di lavoro necessaria in media per produrle. Si ripropone allora l'opportunità di cercare altre innovazioni, che assicurino almeno per un certo tempo nuovi e più ampi margini di guadagno; e il processo va avanti così, indefinitamente.
Nelle società preindustriali le cose non andavano sempre in questo modo e quel tipo di incentivo al progresso tecnico era per diverse ragioni meno operante o assente del tutto. Poteva accadere, per esempio, che tra i diversi produttori non ci fosse alcuna concorrenza; oppure che il costo dell'innovazione tecnica apparisse troppo alto rispetto ai benefici che se ne potevano aspettare; oppure, ancora, che il costo del lavoro fosse così basso da rendere inutile qualsiasi innovazione volta a risparmiare sul suo impiego. Il che non vuol dire che nelle società preindustriali non ci fosse progresso tecnico. Quando c'era, però, non necessariamente era diretto a ridurre i tempi di lavoro. I motivi che spingevano all'innovazione potevano essere altri: il desiderio di ottenere un prodotto migliore, ad esempio, o di compiere operazioni che con i metodi tradizionali risultavano impossibili.

LA MONETA

Come già abbiamo avuto modo di dire, attività commerciali più o meno estese sono esistite fin da tempi molto antichi, ancora prima della comparsa di un'economia agricola. I nostri lettori ricorderanno, per esempio, quanto abbiamo detto circa la diffusione nel Paleolitico di certi materiali (ambra, conchiglie, selci di particolare pregio) in aree geografiche molto lontane dai luoghi di provenienza. È probabile che tale diffusione fosse il risultato di una catena di scambi a breve raggio tra gruppi umani contigui. Con la nascita di un'economia agricola e soprattutto con l'avvento delle prime civiltà urbane il commercio (anche su lunghe distanze) divenne, oltre che una possibilità, una necessità: basta pensare al ruolo che dovette avere in questo sviluppo la crescente richiesta di materiali, come il legname da costruzione o i metalli, che non erano più, come la pietra, facilmente reperibili ovunque.
I più antichi scambi commerciali avvenivano nella forma del baratto. Ma il loro moltiplicarsi rese necessario superare gli inconvenienti dello scambio diretto delle merci. In particolare si impose la necessità di trovare una misura dei valori di scambio delle diverse merci che fosse relativamente sicura e largamente accettata. Si trattava, in sostanza, di trovare una merce che servisse da «moneta», ossia che fosse un comodo equivalente per qualsiasi altra merce, come lo sono oggi i biglietti di banca o il denaro coniato dalla zecca di Stato. La scelta cadde naturalmente sulle merci a cui veniva riconosciuto generalmente una qualche utilità e che, pertanto, potevano essere facilmente scambiate: il sale, le pelli, gli schiavi, il bestiame.
Questo tipo di beni avevano una loro specifica utilità, come oggetti di consumo (il sale, le pelli) o come strumenti di produzione (gli schiavi, il bestiame): erano cioè valori d'uso. Ma quando furono utilizzati anche per acquistare o vendere altri beni, acquistarono la funzione di «equivalente generale» di tutte le merci, ossia di strumento per mezzo del quale il valore di tutte le altre merci poteva essere misurato. In sostanza, un bene (ad esempio, le pelli) da semplice valore d'uso diventa merce (acquista cioè un determinato valore di scambio) allorché viene effettivamente scambiato con un'altra merce nella forma del baratto (pelle contro grano). Infine, quando viene utilizzato per misurare le quantità rispettive nello scambio tra altre due merci (grano contro vino) diventa denaro, moneta, «equivalente generale». Supponiamo che Tizio voglia cedere del vino in cambio di grano e che Caio voglia cedere grano in cambio di vino; e supponiamo che Tizio e Caio per stabilire quanto vino dovrà essere ceduto in cambio di un certo quantitativo di grano oppure quanto grano dovrà essere ceduto in cambio di un certo quantitativo di vino (ossia per stabilire la ragione di scambio vino/grano) decidano di valutare il proprio vino e il proprio grano in funzione di un'altra merce a cui sono entrambi interessati, per esempio le pelli: diremo allora che le pelli funzionano come moneta nella scambio vino/grano tra Tizio e Caio. A questo punto, cioè, le pelli hanno acquistato il «privilegio» (se così si può dire) di rappresentare e misurare il valore di scambio di altre merci, che nel caso concreto sono il vino e il grano, ma che potrebbero essere qualsiasi merce; hanno insomma acquistato il privilegio di esprimere il valore delle merci in generale.
Ad un livello già piuttosto elevato di organizzazione commerciale, la funzione di moneta è stata attribuita in forma pressoché esclusiva ai metalli.
Anch'essi sono stati utilizzati originariamente come valori d'uso: il rame, il bronzo, l'oro, l'argento, il ferro erano innanzi tutto materie prime per la fabbricazione di utensili e monili.
Ma le loro caratteristiche fisiche (durezza, divisibilità, ricomponibilità, facile trasportabilità, ecc.) li rendevano particolarmente adatti a funzionare da moneta.
Tra tutti vennero poi prescelti quelli detti, per la loro inossidabilità e inalterabilità, «nobili», ossia l'oro e l'argento, che agli altri vantaggi univano quello, decisivo, di concentrare in una quantità relativamente piccola di materia (e cioè in un piccolo volume e in piccolo peso) un valore di scambio molto alto derivante dalla loro rarità.
I metalli «preziosi» (preziosi perché rari) continuarono ad essere impiegati nella fabbricazione di gioielli e di oggetti di lusso, ma la loro funzione principale divenne progressivamente quella di moneta, specialmente nella forma di pezzi «coniati», sui quali cioè venivano impresse figure e scritte a indicare il peso e la qualità del metallo e l'autorità che se ne rendeva garante.

Il termine «moneta» viene dal nome della zecca romana, che era situata presso il tempio di Giunone Consigliatrice, Iuno Moneta (da monere = «ammonire, consigliare»). La parola latina per indicare il denaro o, più in generale, la ricchezza, era pecunia: la sua evidente connessione con pecus, che significa «armento», «gregge», «mandria», è testimonianza di un periodo in cui il bestiame costituiva la forma più generale di ricchezza e poteva assumere la funzione di moneta. Vale la pena a questo proposito di osservare che il significato originario pare sia stato proprio quello di ricchezza e che solo in un secondo tempo pecus abbia finito per designare quella specifica (e più comune) forma di ricchezza che era il bestiame.
«Denaro» (dal numerale latino deni = «dieci per volta») è il nome di un'antica moneta romana del valore di 10 assi. Anche «soldo» (che al plurale è sinonimo di denaro, ricchezza, ecc.: Tizio ha fatto i soldi con il commercio, Caio ha speso un sacco di soldi per la casa) è il nome di una moneta romana, il solidus (nel significato proprio di «solido, massiccio»), un grosso pezzo d'oro coniato al tempo dell'imperatore Costantino. Sia «denaro» sia «soldo» sono stati nel corso dei secoli i nomi di monete di modesto valore. I «quattrini» (che anche loro al plurale sono sinonimo di ricchezza: Sempronio ha quattrini a palate) erano monete di rame del valore di 4 denari (da cui il nome), in uso in Italia a partire dal XIV secolo.
Alcune monete hanno il nome dell'unità di peso in cui sono state originariamente coniate. Così, ad esempio, «lira» viene da libbra, ed è anzi la stessa cosa; allo stesso modo, il termine inglese pound designa sia la lira sterlina (unità monetaria) sia la libbra (unità di peso).

I MECCANISMI DELLA PRODUZIONE

1.0 I fattori di produzione.
La produzione è il processo attraverso il quale si ottengono delle cose consumandone o utilizzandone delle altre. Le cose prodotte, almeno in linea di principio, dovrebbero avere una qualche utilità; dovrebbero essere, cioè, dei beni.
Le risorse spese nella produzione di un bene si chiamano «fattori di produzione». Il prodotto non è mai la somma dei fattori impiegati per produrlo, ma qualcosa di completamente diverso e che, almeno nelle intenzioni del produttore, dovrebbe valere di più di quanto egli ha speso nel produrlo.
Possiamo immaginare il processo di produzione come una specie di trasformatore o di cassa magica (anche se di magico non c'è niente) in cui si introducono certe cose e da cui escono altre cose. Ciò che viene messo dentro (in inglese: input) è l'insieme dei fattori di produzione. Ciò che se ne tira fuori (in inglese: output) è il prodotto (vedi schema 1).

Schema 1

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I fattori di produzione si raggruppano di solito in tre classi: lavoro, risorse naturali e capitale.
Il lavoro è la fatica, l'abilità manuale, l'esperienza, l'intelligenza, il sapere spesi nel processo di produzione dalle persone che vi sono addette.
Le risorse naturali sono i cosiddetti «doni della natura», ossia quei beni che esistono indipendentemente dal lavoro dell'uomo e che entrano in un modo o nell'altro nel processo di produzione: la terra (e la sua maggiore o minore fertilità naturale), l'aria, l'acqua, i giacimenti minerari, le ricchezze del mare, ecc.
Capitale è qualsiasi cosa prodotta dall'uomo (che non sia cioè «dono di natura») destinata a produrre altre cose: una macchina, un attrezzo da lavoro, l'edificio in cui avviene la produzione, la materia prima destinata a essere lavorata sono capitali o, come anche vengono chiamati, beni o mezzi di produzione. Naturalmente anche i soldi destinati all'acquisto di macchine, attrezzi, materia prime, ecc., sono capitali (vedi schema 2).

Schema 2




1.1 La distinzione tra lavoro, risorse naturali e capitale non è affatto rigorosa e uno stesso fattore produttivo può essere fatto rientrare in classi diverse a seconda dei punti di vista e delle opportunità di analisi La fertilità del suolo, ad esempio, sarà considerata risorsa naturale fino a quando non apparirà conveniente ricordare che anch'essa e, almeno in parte, effetto del lavoro umano e come tale classificabile tra i beni capitali. Allo stesso modo l'esperienza e l'abilità del lavoratore, che sono attributi del fattore lavoro, possono anche essere considerate una forma di capitale, in quanto sono frutto di addestramento e cioè sono i prodotti di un precedente lavoro e di precedenti investimenti di capitale (spese per l'istruzione, ecc.). In effetti a proposito del lavoro (e del lavoro qualificato in particolare, per il quale i costi di addestramento risultano particolarmente elevati) si parla spesso di «capitale umano».

2.0 La riproduzione del sistema
Il prodotto ottenuto alla fine di un ciclo di produzione costituisce una ricchezza che può essere consumata oppure spesa nella produzione di nuova ricchezza, ossia investita. Così, ad esempio, il grano raccolto al termine di un ciclo produttivo può essere in parte consumato e in parte destinato a servire da semente nel prossimo ciclo. Il grano sottratto al consumo e destinato alla produzione di nuovo grano costituisce un capitale e il suo impiego come semente è quel che si dice «un investimento di capitale».
I prodotti che sono destinati al consumo vanno a reintegrare la risorsa «lavoro». Gli investimenti reintegrano invece la risorsa «capitale». In questo modo il flusso della produzione si chiude in un doppio circuito, attraverso il quale il sistema produttivo si riproduce di ciclo in ciclo (vedi schema 3).

Schema 3



Se all'inizio di un ciclo la situazione delle risorse è più o meno la stessa del ciclo precedente si parla di «riproduzione semplice». Se invece le quantità disponibili dei fattori di produzione tendono ad aumentare (e di conseguenza tendono ad aumentare i valori prodotti) si parla di «riproduzione allargata».

2.1 Anche la distinzione tra consumi e investimenti non è sempre rigorosa. La zuppa che il padrone dà al bracciante che gli raccoglie il grano, dal punto di vista del bracciante è un bene di consumo, ma da quello del padrone è un investimento.

3.0 Un modello per l'analisi dei sistemi economici
Ogni sistema produttivo, anche quello apparentemente più semplice (per esempio una piccola azienda contadina), è un meccanismo complesso. Per capire e per far capire come funziona un meccanismo complesso si può costruirne un modello e cercare di farlo funzionare (si può cioè simularne il funzionamento). Abbiamo già fatto qualche esempio in materia ed abbiamo già detto che i modelli di simulazione sono copie o rappresentazioni semplificate degli originali. Se non fossero semplificate non varrebbe davvero la pena di costruirli: sarebbero come quella fantastica carta topografica di cui parla lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, che era stata costruita alla scala 1:1, e che perciò era grande quanto il territorio che doveva rappresentare. L'importante è che, a forza di semplificazioni, il modello non finisca con il perdere qualsiasi somiglianza con l'originale.
Anche per costruire il nostro modello di sistema produttivo ci serviremo dunque di alcune ipotesi semplificatrici. Ci limiteremo innanzi tutto a prendere in considerazione una sola attività produttiva, quella agricola, trascurando per il momento tutte le altre: il nostro modello si riferisce dunque soltanto ad aziende agricole. Supporremo poi (almeno in prima istanza) che nelle nostre aziende si coltivi un solo prodotto: il grano. Essendoci un solo prodotto, ci sarà, per forza di cose, un solo bene di consumo: i personaggi del nostro modellino dovranno nutrirsi solo di grano.

3.1 Naturalmente non si tratterà di frumento «vero». Per essere consumato dall'uomo il frumento, quello vero, deve essere manipolato, per esempio in forma di pane, e cioè associato ad altre cose come lievito, L'acqua, il sale, ecc.: già questo esclude che il frumento possa essere realmente l'unico genere di consumo. La fabbricazione del pane, poi, richiede un'attrezzatura adeguata (un forno, ad esempio) e implica il consumo di una certa quantità di combustibile. Infine non si vive di solo pane, e anche ammesso che il frumento possa sostituire qualsiasi altro cibo, l'uomo ha bisogno di molte altre cose, come vestiti, abitazioni, ecc., che non sono certo fatte di frumento.
È sempre possibile, però, attribuire a tutti gli altri generi di consumo un valore equivalente a quello di una certa quantità di frumento. Il frumento di cui parleremo, dunque, è un bene convenzionale, che esprime il valore del frumento «vero» e di tutti gli altri beni effettivamente prodotti e consumati.

3.2 Abbiamo pensato che il genere più adatto a svolgere nel nostro modello la funzione di unico prodotto e di unico bene di consumo fosse il frumento. Invece del frumento avremmo potuto scegliere un qualsiasi altro bene, come le capre, ad esempio, o le noci di cocco (che in certi luoghi e in certi tempi hanno effettivamente funzionato come equivalente generale di qualsiasi bene). Il frumento però presenta alcuni vantaggi:
a) il frumento e, almeno in Europa, quasi un prodotto-simbolo dell'attività agricola: è stato coltivato in ogni regione europea fin da tempi antichissimi ed è il più nobile e il più diffuso dei cereali, i quali (a loro volta) hanno rappresentato la porzione di gran lunga più consistente della produzione agricola. È stato detto che fino a due o tre secoli fa l'agricoltura europea era una sorta di monocoltura cerealicola.
b) Il frumento è stato in ogni epoca una componente di rilievo nell'alimentazione degli Europei. Spesso nella dieta degli Europei sul frumento prevalevamo altri cereali di minore valore economico e alimentare, l'orzo, l'avena, la segale, ma è facile trovare l'equivalenza (sia in termini economici, sia in termini nutritivi) di questi cereali con il frumento.
c) Sino a tempi non troppo lontani dai nostri i consumi alimentari hanno rappresentato in Europa la parte di gran lunga più consistente dei consumi globali. Il frumento, dunque, che era la componente più importante dei consumi alimentari, è stato davvero per gli Europei il genere di consumo più diffuso e più importante.
d) Il frumento può essere scambiato facilmente e in qualsiasi proporzione con qualunque altra merce, il che facilita le nostre operazioni di misura. Se, invece del frumento, come equivalente generale di ogni bene avessimo scelto, per esempio, le capre, ci saremmo trovati di fronte a una difficoltà in più. Stabilito il valore di una capra, infatti, non avremmo potuto operare con frazioni di questo valore: mezza capra non vale la metà di una capra, perché per avere mezza capra bisogna uccidere la capra intera, e una capra morta è un bene completamente diverso da una capra viva.
Il carattere pressoché «universale» del frumento rende meno imbarazzante l'idea di una popolazione (come quella del nostro modello) che non si nutre d'altro che di frumento e non fa altro che produrre frumento. Naturalmente, se ci trovassimo, per esempio, in Cina, al posto del frumento avremmo scelto il riso e la simulazione sarebbe riuscita anche più realistica della nostra, dato il ruolo assolutamente dominante del riso nei consumi alimentari di molte popolazioni asiatiche.

4.0 Qualche altra ipotesi semplificatrice
Sempre per rendere le cose più semplici, supponiamo ancora che:
(4.0.1) le risorse naturali impiegabili nella produzione si riducano alla terra, ossia alla superficie seminata;
(4.0.2) i beni capitali investiti nella produzione si riducano alla sola semente e siano pertanto costituiti sempre e soltanto da frumento. Nel nostro schema li indicheremo con KS.

4.1 La prima ipotesi è tutt'altro che irrealistica. Fino al Settecento e ancora nell'Ottocento gli economisti non parlavano affatto di «risorse naturali», ma senz'altro di «terra», perché la terra era di gran lunga la risorsa naturale più importante. Non c'è davvero da stupirsi che, in una società fondamentalmente agricola com'era fino a un paio di secoli fa quella europea, la terra e la sua fertilità fossero l'immagine più concreta dei cosiddetti «doni della natura».

4.2 La seconda ipotesi può sembrare un'assurdità: è difficile infatti immaginare che si possa lavorare la terra e produrre del frumento senza attrezzi, senza macchine, senza animali da lavoro. Ma questa ipotesi deriva necessariamente dalle ipotesi che abbiamo formulato nel paragrafo precedente (3.0). Se l'unico bene che può essere prodotto e consumato e il frumento, anche i beni capitali dovranno essere costituiti da frumento. D'altra parte il frumento è effettivamente un bene capitale quando viene utilizzato come semente. Infine, nei sistemi agricoli relativamente elementari, come quelli di cui ci occuperemo almeno in un primo momento, la semente costituiva davvero il grosso degli investimenti. In Europa il valore degli altri beni capitali (attrezzi e animali da lavoro) è rimasto assai modesto e talvolta addirittura trascurabile sino al XII o XIII secolo. Soltanto a partire dal XVIII secolo, con l'avvento dell'agricoltura che possiamo chiamare «scientifica» e con la progressiva meccanizzazione dell'agricoltura il peso di quei fattori è diventato determinante.

5.0 Lo schema di base
Con le lettere L, T, KS e Q indichiamo quantità qualsiasi di lavoro, di terra seminata, di capitali (ossia, in forza delle nostre ipotesi semplificatrici, di semente), di prodotto. Si tratta di quantità qualsiasi e perciò le chiamiamo variabili.
Le variabili possono, per definizione, assumere qualunque valore. Se però diamo ad una di queste variabili un valore, tutte le altre assumeranno determinati valori e non altri. In altre parole, tra le variabili L, T, KS, Q ci sono dei rapporti fissi (o almeno relativamente fissi) che chiamiamo parametri e che, come vedremo, dipendono dal livello delle tecniche produttive e dalla forma dell'organizzazione sociale (vedi schema 4).

Schema 4



L'insieme delle variabili L, T, KS, Q e dei parametri che le legano insieme costituiscono un sistema di relazioni. Nello schema che rappresenta tale sistema, le variabili sono racchiuse in rettangoli, i parametri sono raffigurati da linee continue orientate.
L'orientamento delle linee che nello schema 4 uniscono le variabili (e quindi rappresentano i parametri) sta a indicare che, se conosciamo la quantità di una variabile (per esempio L), per trovare il valore di un'altra variabile (per esempio Q) dobbiamo moltiplicare la prima per il parametro corrispondente (qL):

Q = L x qL

Naturalmente se si vuoi procedere in senso inverso da quello indicato dalla freccia, ossia se, conoscendo Q e qL si vuol trovare L, anziché moltiplicare occorrerà dividere:

L = Q : qL

I parametri rappresentati nello schema sono:

 (5.0.1)      l = T : L     è la superficie di terreno lavorata
                            da una unità di lavoro; la chiamiamo
                            capacità di lavoro;

 (5.0.2)      d = KS : T    è la quantità di frumento seminata su
                            una unità di superficie, la chiamiamo 
                            densità della semente;

 (5.0.3)      r = Q : KS    è la quantità di prodotto per unità
                            di semente; la chiamiamo rendimento 
                            della semente;

 (5.0.4)     qL = Q : L     è la quantità di prodotto per unità di
                            lavoro; la chiamiamo produttività del
                            lavoro;

 (5.0.5)     qT = Q : T     è la quantità di prodotto per unità di
                            superficie; la chiamiamo produttività
                            della terra.

5.1 Con T indichiamo la superficie semina. Non tutta la terra disponibile, però, può essere seminata ogni anno: una parte deve essere tenuta a maggese perché la sua fertilità si ricostituisca. Se chiamiamo TD la terra disponibile, il rapporto tra la terra seminata ogni anno e la terra disponibile sarà:

m = T : TD

come si rappresenta nel nostro schema 5:

Schema 5





Con una rotazione biennale (un anno a coltura e uno a maggese) solo la metà della terra disponibile risulterà coltivata ogni anno (m = 0,5). Con una rotazione triennale (due anni a coltura e uno a maggese) la terra seminata ogni anno sarà pari ai due terzi della terra disponibile (m = 0,66) e così via. È evidente che T non può essere maggiore di TD e che m non può essere maggiore di 1.

5.2 Se, come speriamo, ci siamo spiegati bene, i nostri lettori a questo punto avranno capito come funziona il modellino che stiamo costruendo. Non dovrebbe, allora, essere difficile sostituire negli schemi riprodotti a e b i punti interrogativi con dei valori numerici. In caso di difficoltà non c'è altro da fare che rileggere il § 5.0.


a)




b)



5.3 Meriterebbero un premio quelli che a questo punto si sono accorti che

(5.3.1) qT = d x r

e che

(5.3.2) qL = l x d x r

Chiameremo l, d, r «parametri tecnici» perché in effetti essi dipendono dai metodi e dagli strumenti di lavoro.

5.4 Prima dell'adozione del sistema metrico decimale (che risale a non più di due secoli fa) la capacità di lavoro è stata spesso utilizzata per misurare le superfici agrarie. Lo iugero dei Romani, ad esempio, era la terra che poteva essere arata in un giorno con una coppia di buoi: la parola deriva da iugum che vuol dire appunto «coppia di buoi». Altri esempi sono il francese arpent (che si misurava in giornate di lavoro) o l'italiano «giornata», ma misure di superficie dello stesso tipo, basate cioè sul tempo di lavoro, si trovano in ogni regione d'Europa (e anche fuori dell'Europa).
Lo iugero corrispondeva pressappoco a 2500 metri quadrati. Il pressappoco è d'obbligo con questo genere di misure che esprimono lo spazio in termini di tempo e l'estensione in termini di durata Le superfici dei campi misurati in giornate di lavoro variavano infatti sensibilmente a seconda del tipo di coltura (cereali, vigne, prati), del tipo di lavoro (aratura, falciatura, ecc.), degli strumenti impiegati (aratro leggero o pesante; tirato da buoi, da cavalli o da trattori, ecc.), della qualità della terra, ecc. In qualche caso c'erano perfino misure invernali e misure estive, giacché in inverno la giornata di lavoro è più breve che in estate. Non si trattava di misure imprecise: c'era semmai un eccesso di precisione. Quanto alla diversa estensione di una giornata di terreno, non costituiva un grosso inconveniente: al contrario, il vantaggio di questo tipo di misure consisteva appunto nell'esprimere immediatamente l'equivalenza, in termini di lavoro, tra terreni di qualità e di superficie diverse, che era poi proprio quel che importava sapere.
Una funzione analoga a quella delle misure fondate sul tempo di lavoro e stata svolta nei secoli passati dalla densità di semente. Il valore di un terreno è evidentemente connesso al suo prodotto annuo. A causa però delle variabili condizioni climatiche le quantità raccolte sullo stesso campo cambiano ogni anno e in modo imprevedibile. Le quantità seminate restano invece sempre le stesse e sono pertanto un buon indice del prodotto medio e quindi del valore del terreno. Nella campagna romana, per esempio, il rubbio era sia un'unità di superficie, sia un'unità di capacità per granaglie: un rubbio di terreno era la superficie sulla quale poteva essere seminato un rubbio di grano. Anche in questo caso l'estensione di un rubbio di terra poteva variare notevolmente da un luogo a un altro. In linea generale, infatti, una terra di buona qualità consente una semina più fitta di una terra di cattiva qualità, il che significa che, a parità di superficie, la quantità di semente sulla terra buona sarà più alta che sulla terra cattiva, mentre a parità di semente l'estensione del terreno seminato sarà minore sulla terra di buona qualità e maggiore in quella di cattiva qualità.

6.0 Un semplice sistema di equazioni
Un sistema di relazioni come quello rappresentato nello schema 4 può essere espresso da una serie di equazioni. Se per ogni unità di semente Tizio ha ottenuto otto unita di prodotto, possiamo esprimere la cosa con la seguente equazione:

(a) Q = K x 8

Se nello stesso ciclo produttivo Tizio ha raccolto IQ unità di prodotto per ogni unità di superficie, possiamo esprimere la cosa con la seguente equazione:

(b) Q = T x 10

Confrontando le equazioni (a) e (b) possiamo sapere quanta semente è stata adoperata da Tizio per ogni unità di superficie. Secondo la (a) il prodotto è

Q = K x 8

e secondo la (b) è

Q = T x 10

sicché

(c) K x 8 = T x 10

e quindi

(d) K = T x 10 : 8 = T x 1,25

6.1 I nostri lettori dovrebbero domandarsi se le affermazioni che seguono sono verosimili o inverosimili. Potrebbero domandarlo anche ad altri e fare così un piccolo sondaggio di opinioni.
Per conoscere le risposte esatte non c'è che da consultare un po' di libri. Ma quali saranno i libri adatti?
Ecco una buona domanda, a cui i nostri lettori potrebbero cercare di rispondere con un'altra piccola inchiesta.

Nel 1857 Il signor Titta Oneto nella sua villa di Trecase, avendo seminato 3 quintali di frumento ha ottenuto un raccolto di quasi trenta quintali.
È verosimile?

Tra il 214 e il 233 d.C. nella provincia romana della Bitinia il rendimento medio della semente è stata per il frumento di 9,8 a 1, con un aumento rispetto al ventennio precedente (194-213 d.C.) di quasi l'8 per cento.
È verosimile?

Nel 1985 il signor Tom Jones di Littlefield nel Kansas è stato premiato dalla locale Associazione patriottica tra i coltivatori di frumento per aver ottenuto il più alto rendimento della terra di tutto il distretto (e uno dei più alti dello stato): 12,8 quintali per ettaro.
È verosimile?

6.2 Un problema per i lettori più volonterosi. Un grande latifondista romano del II secolo d.C. possiede 1000 ettari di terreno in Sicilia, 1000 ettari di terreno in Etruria e 1000 ettari di terreno in Egitto. Delle sue aziende conosciamo alcuni parametri tecnici:

+----------------------------------------------------------------+
¦                  d                  r             qT           ¦
¦          quintali per ettaro               quintali per ettaro ¦
+----------------------------------------------------------------¦
¦Sicilia          1,4                 8               11,2       ¦
¦Etruria          1,2                10               12         ¦
¦Egitto           0,7                10                7,5       ¦
+----------------------------------------------------------------+

Si tratta di ottime terre, con rese medie molto alte per l'epoca. Si vuol sapere quale delle tre aziende produce di più, tenuto conto che in Sicilia e in Etruria si pratica la rotazione biennale (m = 0,5), mentre in Egitto, per effetto del limo depositato dalle piene del Nilo, è possibile seminare la terra tutti gli anni senza interruzione (m = 1).

7.0 La popolazione attiva
L'esistenza della risorsa lavoro, ossia la disponibilità di una certa quantità di manodopera (L), implica l'esistenza di una popolazione (P) comprendente anche individui che non sono inseriti nel processo produttivo (vecchi, bambini, malati, invalidi, ecc.).
Chiamiamo «tasso di attività» (a) il rapporto tra forza-lavoro disponibile (o «popolazione attiva») e la popolazione complessiva:

(7.0.1) a = L : P

ovvero:

(7.0.2) L = a x P

che graficamente possiamo rappresentare con lo schema 6:

Schema 6



7.1 Il tasso di attività dipende dalla struttura per classi di età della popolazione e da peculiari condizioni sociali e culturali. Così, quanto più alta è la percentuale dei giovanissimi non ancora in grado di lavorare (o dei vecchi che non sono più in grado di lavorare), tanto più basso sarà il tasso di attività. La regolamentazione del lavoro minorile, ritardando o rendendo più difficile l'inserimento dei ragazzi nel mondo della produzione, tende ad abbassare il tasso di attività di una popolazione. Lo stesso effetto possono avere particolari abitudini o regole di comportamento sociale come quelle che considerano sconveniente il lavoro per determinate categorie di persone (gli aristocratici, i preti, le donne, ecc.).

7.2 La popolazione attiva ossia quella parte della popolazione che è in grado di lavorare, non coincide necessariamente con la forza lavoro occupata; può esservi infatti una certa quota della manodopera disponibile che resta inutilizzata. Almeno in prima approssimazione, però, considereremo la popolazione attiva (L = a x P) come interamente occupata.

8.0 Il fabbisogno minimo
Se chiamiamo (f) la quantità minima di beni di consumo (espressa in quintali di frumento) necessaria in media ad assicurare la pura sopravvivenza di un uomo, il fabbisogno minimo totale (F) della popolazione (P) sarà:

(8.0.1) F = f x P

Graficamente possiamo rappresentare l'insieme delle relazioni tra la popolazione (P), la forza lavoro (L) e il fabbisogno globale (F) con lo schema 7:

Schema 7


8.1 Per convenzione possiamo fissare il fabbisogno minimo pro capite (f) a tre quintali di frumento. È solo una convenzione ma, crediamo, non troppo lontana dal vero.

9.0 I consumi
Se (C) è la quantità di beni globalmente disponibile per il consumo della popolazione (P), il consumo pro capite (c) sarà:

(9.0 1) c = C : P

Il rapporto tra consumi effettivi e fabbisogno minimo necessario alla sopravvivenza della popolazione dà l'indice di benessere (b) della popolazione stessa:

(9.0.2) b = C : F = c : f

da cui si ricava che il consumo pro capite (c) è determinato dal fabbisogno minimo pro capite (f) e dall'indice di benessere (b):

(9.0.3) c = f x b

Graficamente le relazioni tra fabbisogno (F) e consumi (C) della popolazione (P) sono rappresentate dallo schema 8:

Schema 8




9.1 Il consumo pro capite (c) non e che un valore medio. In prima approssimazione ci accontenteremo di questo valore senza preoccuparci della distribuzione effettiva dei consumi nella popolazione. È bene tuttavia ricordare che le medie costituiscono un singolare tipo di dati statistici, in forza del quale (come dice una vecchia battuta) se tu mangi un pollo e io resto a guardare, risulta che in media abbiamo mangiato mezzo pollo a testa.

9.2 Quando l'indice di benessere (b) assume valori inferiori a 1 vuol dire che i consumi (C) sono scesi al disotto del livello di sopravvivenza (F). Vuol dire, insomma, che c'è una «carestia», sicché una parte della popolazione è destinata ad essere eliminata (per morte o per emigrazione). La popolazione continua a diminuire fino a quando non si ristabilisce un equilibrio tra bisogni (F) e risorse (C), fino a quando, cioè, l'indice di benessere non torna al di sopra di 1.

10.0 Il costo del lavoro
Se la disponibilità della forza lavoro (L) dipende dall'esistenza della popolazione (P) e questa a sua volta dal volume globale dei consumi (C), il costo medio (s) dell'unità di lavoro sarà:

(10.0.1) s = C : L

Graficamente le relazioni tra la forza lavoro (L), la popolazione (P), il fabbisogno globale (F) e i consumi (C) sono rappresentate dallo schema 9:

Schema 9





10.1 Dallo schema 9 si ricava facilmente che il costo unitario medio del lavoro (s) è dato dal rapporto tra il consumo unitario medio (c) e il tasso di attività (a) della popolazione:

(10.1.1) s = c : a

e cioè (per la 9.0.3):

(10.1.2) s = f x b : a

Poiché, come abbiamo visto al § 9.2, l'indice di benessere non può scendere al disotto di I senza provocare l'eliminazione di una parte della popolazione, il costo unitario minimo del lavoro (sm), che potremmo chiamare «il salario di sopravvivenza», sarà:

(10.1.3) sm = b x a

11.0 Oneri e disponibilità
Come si è detto al § 2.0, al termine di ogni ciclo di produzione, il prodotto viene destinato parte ai consumi e parte agli investimenti. Può capitare, però, che una certa quota del prodotto non sia disponibile né per consumi né per investimenti a causa di oneri, perdite o prelievi diversi: tasse e tributi pretesi dai funzionari del re o dai sacerdoti del tempio, danni sofferti ad opera di una banda di saccheggiatori, canoni di affitto da pagare al padrone della terra, ecc. La disponibilità effettiva di beni (D) sarà dunque tanto minore quanto maggiori saranno gli oneri (O) gravanti sul sistema produttivo:

(11.0.1) D = Q - O

D'altra parte nelle disponibilità deve essere calcolato anche l'ammontare delle eventuali riserve o scorte (KR) accantonate nei precedenti cicli di produzione. La disponibilità effettiva (D) sarà dunque:

(11.0.2) D = Q + KR - O

Nello schema 10 il prodotto (Q), gli oneri (O), le scorte (KR) e le disponibilità (D) sono collegate da linee tratteggiate e orientate: le quantità relative vanno sommate quando le linee convergono, e vanno sottratte quando le linee divergono:

Schema 10




12.0 Consumi e investimenti
Lo schema 11 rappresenta la distribuzione dei beni disponibili tra consumi (C) e investimenti (1): i primi, come si è detto al 2.0, vanno a reintegrare il fattore «lavoro» (L) e i secondi il fattore «capitale» (K). I capitali sono costituiti dalla semente (KS) necessaria per il nuovo ciclo produttivo, dalle scorte o riserve (KR) che si accantonano per far fronte a bisogni imprevisti, e infine da tutti gli altri beni di produzione (KA), come possono essere utensili, macchine, bestiame da lavoro, concimi, edifici, impianti, ecc. Come abbiamo detto al § 4.0.2, di tutti questi altri beni, per semplicità e in via di prima approssimazione, non terremo alcun conto. È opportuno, però, che nel nostro schema se ne conservi memoria.

Schema 11





13.0 Lo schema completo
Combinando gli schemi 4, 5, 9, 10, 11 otteniamo come si può vedere nello schema 12 il ciclo produttivo completo.

Schema 12





13.1 Problema. Calcolate il rendimento minimo della semente che consente la sopravvivenza di un'azienda in cui non esistono scorte (KR = 0) né oneri di alcun genere (O = 0) e che presenta i seguenti parametri

 a = 0,6
 l = 2      ettari per uomo
 d = 1,1    quintali per ettaro
 f = 3      quintali per anno

13.2 Problema. Calcolate quali canoni (O) è in grado di pagare al padrone un'azienda colonica composta di dieci persone (P = 10) e che presenta i seguenti parametri:

 a = 0,6
 l = 2      ettari per uomo
 d - 1,1    quintali per ettaro
 r = 4
 f = 3      quintali per anno

13.3 Problema. Calcolate il rendimento minimo della semente in un'azienda colonica in cui il canone dovuto al padrone è pari alla metà del raccolto (O = Q : 2) e che presenta i seguenti parametri:

 a = 0,6
 l = 2      ettari per uomo
 d = 1,1    quintali per ettaro
 f = 3      quintali per anno

14.0 Annate buone e annate cattive
Pur restando invariate le condizioni tecniche e sociali in cui opera un'azienda (e cioè senza che i parametri fondamentali cambino sensibilmente) il rendimento della semente (r) può cambiare moltissimo di anno in anno per effetto di fattori diversi, in parte estranei all'azienda stessa, come eventi metereologici, catastrofi naturali, malattie delle piante, ecc. Quello che resta relativamente costante è il rendimento medio della semente, ma i rendimenti reali oscillano intorno a questo valore medio. Ci sono insomma, come tutti sanno, annate buone e annate cattive. Come insegna anche la Bibbia, è opportuno negli anni delle vacche grasse metter da parte qualcosa per gli anni delle vacche magre ed è questa la ragione che spinge alla formazione di scorte (KR).
L'ampiezza delle oscillazioni intorno a valori medi del rendimento della semente influisce però direttamente non solo sulla formazione di scorte, ma su tutta la vita dell'azienda, come dovrebbe risultare dall'esercizio che segue.

14.1 Prendiamo in considerazione l'andamento quinquennale di due aziende che nel primo anno si presentano uguali in tutto. La situazione iniziale delle due aziende è rappresentata nello schema 13.

Schema 13





Tutti i parametri restano costanti nei quattro anni successivi al primo, tranne il rendimento (r). In entrambe le aziende il rendimento oscilla intorno a 4 (ossia entrambe hanno lo stesso rendimento medio), ma l'ampiezza delle oscillazioni è maggiore nella prima, come risulta dalla seguente tabella:

              1° anno    2° anno    3° anno    4° anno    5° anno
prima
azienda          4          2          3          6          5

seconda
azienda          4          3         3,5         5         4,5

Tutto ciò che eccede il fabbisogno minimo (p) viene destinato alla formazione di scorte (KF). Se invece di una eccedenza risulta un deficit, poiché consideriamo le due aziende come perfettamente isolate (non in grado, cioè, di ricevere aiuti o prestiti dall'esterno) sarà necessario espellere una quota di popolazione. Il gioco consiste nel calcolare le disponibilità delle due aziende alla fine di ogni anno e di provvedere all'espulsione della quota eventualmente eccedente di popolazione.
Alla fine del quinquennio quale delle due aziende sarà riuscita a difendere meglio la propria popolazione?

14.2 Facciamo riferimento sempre all'esercizio del § 14.1. La prima azienda nel secondo anno presenta un deficit che costringe a eliminare un certo numero di consumatori. Ma quanti esattamente? C'è un modo per determinare in casi come questi la quota di popolazione da espellere?
È un problema (come si suol dire) di allocazione di risorse o (come anche si dice) di efficienza economica. In sostanza si tratta di impiegare le risorse esistenti nel modo migliore. Le risorse esistenti non arrivano a coprire il fabbisogno minimo della popolazione esistente e i quantitativi necessari alla nuova semina. Si può scrivere.

D < F + KS

(le disponibilità sono inferiori al fabbisogno più la semente).

Ci sono due rischi che bisogna evitare: quello di accantonare troppa semente e quindi di eliminare più gente del necessario (il che significherebbe, tra l'altro, che non essendoci manodopera sufficiente parte della semente accantonata andrebbe sprecata); e quello di trattenere troppa sente con la conseguenza di consumare anche parte della semente che dovrebbe invece essere accantonata per il nuovo ciclo produttivo.
Cercate la soluzione prima per tentativi dando dei valori che alle variabili dello schema 14 (2° anno), e poi (se siete capaci di lavorare con sistemi di equazioni di primo grado) trovate la formula che indica il livello ottimale di popolazione (quello, cioè, che minimizza le perdite).

Schema 14