DAL VILLAGGIO ALLA CITTÀ
I
cacciatori-raccoglitori del Paleolitico che vivevano in aree montuose abitavano
per lo più in caverne o sfruttavano ripari rocciosi; quelli che vivevano
nelle pianure, dove i ripari naturali erano piuttosto rari, si costruivano
invece rifugi o capanne. Almeno da questo punto di vista le pianure costituivano
un ambiente poco ospitale, e, a quanto pare, furono conquistate dagli uomini
solo in contemporanea (o quasi) alla scoperta delle prime tecniche agricole. Nel
Vicino Oriente, ad esempio, non si conoscono stabili insediamenti umani in
pianura prima dell'avvento dell'agricoltura.
Ciò che sappiamo su
queste prime abitazioni costruite dell'uomo è per la verità poco
preciso e le indicazioni che possiamo trarre dalle abitazioni dei popoli
primitivi a noi contemporanee non sono affatto sicure. Alcune notizie sulle
strutture e sulle funzioni di queste prime «case» si ricavano dai
resti di abitazioni neolitiche sparsi nel Vecchio Mondo: nelle paludi del centro
Europa, nei laghi della Svizzera, nei Tell del Medio Oriente o nel fango del
delta del Nilo.
Certo, anche negli ambienti di pianura, esistono tracce di
agglomerati di abitazioni che risalgono al Paleolitico (e ne abbiamo parlato
diffusamente); si trattava però di insediamenti a carattere temporaneo,
conformi ad abitudini di vita seminomade, e perciò completamente diversi
da quelli del Neolitico. Non si può dire tuttavia che il nomadismo dei
raccoglitori paleolitici sia scomparso del tutto con l'avvento dell'agricoltura.
Poiché il terreno coltivato con tecniche primitive era soggetto a un
processo di progressivo impoverimento, anche la popolazione dei più
antichi villaggi neolitici era costretta a trasferirsi periodicamente in terre
più fertili. L'agricoltura, però, anche nelle sue forme più
rudimentali, aveva comportato quanto meno un prolungamento dei tempi di
occupazione dei siti, tale da conferire agli insediamenti neolitici un carattere
di continuità e di stabilità del tutto sconosciuto alle età
precedenti.
I primi villaggi neolitici, i cui abitanti integravano le nuove
attività agricole con quelle tradizionali della caccia e della raccolta,
erano completamente autosufficienti. Costituito da un gruppetto di famiglie dove
tutti seguivano lo stesso sistema di vita e partecipavano agli stessi lavori,
ciascun villaggio era come un'isola rispetto agli altri e tale rimase fino a
quando i trasporti e le comunicazioni non progredirono, in funzione,
però, principalmente della nuova economia urbana. Il villaggio è
stato l'unità elementare della società agricola, la sua cellula
originaria. La moltiplicazione di tali cellule è stata la forma specifica
della più antica espansione dell'agricoltura: quando la popolazione di un
villaggio cresceva oltre le possibilità di sussistenza offerte dal
territorio circostante, un gruppo di famiglie si spostava su terre ancora
vergini e le colonizzava fondando un altro nucleo di abitazioni.
Il
villaggio neolitico ha rappresentato un modello di organizzazione sociale e
produttiva, che per molti aspetti non è più stato superato. In
esso erano già presenti, ad esempio, gli elementi che contraddistinguono
ancora oggi i centri agricoli: abitazioni stabili, private e collettive, granai,
forni, ecc. La cultura del villaggio neolitico ha raggiunto la piena
maturità attorno al V-IV millennio a.C.
A quell'epoca i villaggi
avevano già un'estensione notevole ed erano costituiti di solide capanne
di legno oppure, come avveniva frequentemente nelle regioni povere di legname,
come la Palestina, di case costruite in mattoni di argilla
cruda.
Particolare importante, i villaggi neolitici erano di solito
sprovvisti di opere difensive, segno che almeno nei primi stadi della loro
evoluzione i rari contatti tra le varie popolazioni agricole si svolgevano
pacificamente. Abbiamo detto «di solito» perché, in
verità, non mancano testimonianze in senso contrario. A Gerico, in
Palestina, sono stati trovati i resti di uno dei più antichi villaggi
agricoli che si conoscano, risalente all'8000 a.C.: ebbene, questo antichissimo
insediamento era dotato di un sorprendente sistema di fortificazioni costituito
da grandi mura e torri di pietra. Ciò significa che già agli inizi
del Neolitico, almeno in questa parte della Terra, assieme all'agricoltura e
alla vita sedentaria, era nata la guerra, che non era più la rissa
occasionale di piccoli gruppi concorrenti, ma un'attività organizzata e
dotata di tecniche specifiche.
Il villaggio neolitico rappresentava il modo
di raggrupparsi di una comunità insediata nel suo territorio e dedita ad
attività direttamente o indirettamente attinenti alla coltura dei campi.
Con la fondazione delle prime città le strutture sociali presenti in
embrione nel villaggio agricolo, si complicarono: assieme ad un'agricoltura
più evoluta che conosceva ormai l'aratro ed i grandi sistemi di
irrigazione, diventarono molto importanti l'artigianato e l'allevamento e ad
essi si associò una attività umana quasi completamente nuova: il
commercio. La città rifletteva insomma le possibilità offerte
dalla nuova economia, che, con la formazione di importanti eccedenze alimentari
permetteva di nutrire una popolazione composta oltre che da agricoltori, da
specialisti produttivi (gli artigiani, tessitori, ceramisti, muratori, ecc.) o
improduttivi (mercanti, funzionari, scribi e sacerdoti).
Nella sua
evoluzione successiva la città finì con allontanarsi sempre
più dal lavoro della terra per assumere il ruolo di centro direttivo,
economico, religioso e militare di un vasto territorio agricolo ad essa
soggetto. Anche le prime città della Mesopotamia nacquero probabilmente
dall'esigenza di organizzare la conservazione delle eccedenze agricole e la
ridistribuzione dei beni all'interno di una società che si poteva
considerare abbastanza ricca. Il centro di aggregazione sociale era il tempio,
le cui funzioni non erano esclusivamente religiose, ma piuttosto
politico-amministrative. Si suppone infatti che proprio il tempio (nella persona
dei suoi sacerdoti) avesse il compito di raccogliere i beni prodotti da
agricoltori e artigiani e di provvedere alla loro ridistribuzione nel corpo
sociale.
Abbiamo visto come una delle caratteristiche salienti dei primi
villaggi agricoli fosse, almeno di norma, l'assenza di opere di difesa. In essi
si conduceva una vita molto regolare, ritmata sui cicli naturali,
fondamentalmente pacifica. Ma la necessità di difendere in maniera
efficace i beni della comunità da eventuali aggressioni ha fatto nascere
(talvolta precocemente, come nel caso di Gerico) il villaggio fortificato. Con
la formazione delle città la guerra, che era apparsa agli inizi del
Neolitico come fenomeno sporadico, si era ormai generalizzata. Centri di
accumulo di potere e di ricchezze, le città finivano inevitabilmente per
suscitare l'avidità e l'invidia dei vicini. La storia delle città
è fin dall'inizio una storia anche di guerre. Le città antiche
come Ur e Babilonia, in Mesopotamia, o Tebe, in Egitto, nella loro stessa
struttura esprimono la lotta, l'aggressione, la dominazione: è di questo
infatti che ci parlano le mura di cinta, i bastioni, le cittadelle, le torri e
quegli strati di cenere, resti di antichi incendi, che gli scavi archeologici
riportano alla luce dopo migliaia di anni e che sono la drammatica testimonianza
di un'antica, diffusa violenza.
CATAL HUYUK
Catal Huyuk è un villaggio neolitico
dell'Anatolia (odierna Turchia) situato a circa 200 km a Sud di
Ankara.
Nato verso la metà del VII millennio a.C., fu anche un
interessante centro «commerciale». L'avvicendarsi della fasi di
occupazione umane sempre nello stesso posto ha creato una collinetta artificiale
all'interno della quale gli archeologi hanno individuato ben 12 livelli di
abitazione, separati, soprattutto i più antichi, da sottili strati di
cenere, il che fa pensare a ripetuti incendi. La collina non è stata
ancora completamente scavata, anche perché copre un'area di circa 13
ettari.
Lo stato di conservazione dei reperti, particolarmente buono, ha
permesso di ricostruire un intero quartiere. Il caso ha voluto che quello
portato alla luce fosse probabilmente il quartiere dei sacerdoti. Lo si deduce
dal tipo di oggetti e di decorazioni che vi sono stati rinvenuti. Alcuni
affreschi murali, i cui colori dominanti sono il rosso, il rosa, l'arancione, il
nero e il bianco, rappresentano scene di culto, animali, danzatori vestiti di
pelli di leopardo, divinità, fra cui sono raffigurati il toro e una sorta
di dea madre (temi ricorrenti nelle decorazioni di molti oggetti). Scene molto
interessanti sono quelle che paiono riguardare il culto dei morti, nelle quali
alcuni avvoltoi attaccano dei cadaveri umani decapitati.
Si ha
l'impressione di trovarsi di fronte ad un agglomerato in qualche modo
«pianificato». Le case appaiono infatti costruite tutte allo stesso
modo e con mattoni di argilla seccata al sole tutti delle stesse dimensioni. I
tetti, fatti di canne, erano probabilmente piatti, ricoperti di fango e
sostenuti da travi di legno. Si accedeva all'interno dal tetto mediante una
scala. Le abitazioni erano a pianta rettangolare, contenevano un focolare ed
erano solitamente suddivise in due settori per mezzo di un ripiano di legno, su
cui si abitava, mentre il pianterreno era adibito a magazzino; i locali
ricevevano luce da piccole finestre aperte all'altezza del tetto. Fra le
costruzioni, addossate le une alle altre, c'erano dei cortili.
Il materiale
raccolto dagli archeologi è ricchissimo: vasi di ceramica molto
raffinati, opere di scultura in pietra e argilla, uno strumentario litico assai
complesso, basato quasi esclusivamente sulla lavorazione dell'ossidiana una
roccia vetrosa simile allo smalto che proveniva da giacimenti vicini: era
esportata nei territori limitrofi dove veniva scambiata con altri beni come le
conchiglie marine e un certo tipo di selce detto «tabulare» per la sua
struttura cristallina.
L'economia praticata a Catal Huyuk era di tipo
agricolo, ma la caccia manteneva un ruolo importante. Venivano coltivati il
frumento, l'orzo, i ceci e la veccia, e vi sono tracce di animali già
addomesticati come la pecora, il cane e forse il bue. Particolarmente ricca era
l'attività artigianale: sono stati ritrovati bellissimi esemplari di
lavorazione dell'osso e del corno, specchi fatti con lastre di ossidiana, monili
e collane abbelliti con pietre dure perforate. Alcuni di questi monili
contengono piccoli frammenti metallici, il che non significa che la metallurgia
fosse praticata, ma solo che c'era un certo interesse nei confronti del rame e
del piombo «nativo» (ossia come lo si trova in natura) che dovevano
essere apprezzati come pietre particolarmente belle e dotate di
malleabilità.
La produzione di ceramica compare molto presto dopo
una breve fase di Neolitico aceramico; la decorazione, contrariamente a quanto
si ritrova nei siti circostanti, non è impressa né graffita: la
ceramica lucidata, di colore scuro, veniva dipinta (negli esemplari più
belli), oppure lasciata nuda.
ZIGGURAT, TELL, HUYUK
Le antiche popolazioni del Vicino Oriente
avevano l'abitudine di costruire le loro città nello stesso posto in cui
erano sorti gli insediamenti precedenti. Questa abitudine ha prodotto la
formazione dei cosiddetti Tell o Huyuk («collina», rispettivamente in
arabo e in turco), piccole colline artificiali che si elevano qua e là
nelle vaste pianure, e che nascondono al loro interno una successione di strati
archeologici che inizia con il Neolitico per giungere in qualche caso fino
all'età moderna. A Eridu, sul basso corso dell'Eufrate, l'uso di
costruire il tempio sulle rovine del precedente, o comunque inglobando le
vecchie strutture architettoniche nelle nuove, è testimoniato dalla
possente Ziggurat, una sorta di piramide composta dal lungo sovrapporsi di un
tempio sull'altro. Ziggurat è il nome con cui si designano i grandi
edifici per il culto eretti in Mesopotamia nel III millennio a.C. Quella di Ur
misurava all'incirca 70 metri per 55 ed era alta più di 27
metri.
I METALLI E LE ARTI DEL FUOCO
I materiali con cui gli uomini, dal momento
della loro comparsa e sino a tutto il Neolitico, si erano costruiti strumenti ed
armi, e cioè il legno, la pietra, l'osso, il corno e simili, si trovavano
in abbondanza un po' dovunque. Variava naturalmente la qualità di questi
materiali e quelli particolarmente «buoni» (ossia adatti a certe
lavorazioni) o particolarmente «belli» (ossia conformi a quel gusto
estetico che, da un certo punto in poi, ha cominciato a condizionare il
comportamento degli uomini), potevano risultare localmente scarsi o assenti. Di
norma, tuttavia, la materia prima era abbondante e a portata di mano.
Gli
uomini dell'età della pietra conoscevano molto bene le caratteristiche
dei materiali che lavoravano e sicuramente, tra quelli disponibili entro una
certa area, sapevano scegliere con cura i migliori. In questa quotidiana ricerca
dei materiali da lavorare si imbattevano continuamente in minerali contenenti
rame, ferro o altri metalli, molti dei quali si fanno notare per il loro colore.
Alcuni di questi minerali erano infatti usati come coloranti: l'ematite, ad
esempio, che è un ossido di ferro di colore rosso (l'ocra rossa), o la
malachite che è un carbonato di rame di colore verde.
Certi metalli,
come il ferro, sono molto abbondanti sulla crosta terrestre, ma, appunto, sotto
forma di minerali, e cioè chimicamente legati con altri elementi, quali
l'ossigeno, lo zolfo, il carbonio, il silicio. I metalli «nativi»,
ossia quelli che si trovano in natura allo stato puro, non combinati o mescolati
con altre sostanze, sono invece piuttosto rari. L'oro e l'argento si possono
trovare allo stato nativo in pagliuzze o in minuscoli grani. Il ferro nativo
è soltanto quello delle meteoriti cadute sulla superficie terrestre, e
non è affatto comune. Solo il rame si trova con relativa abbondanza sotto
forma di ciottoli e lamine abbastanza grandi, e ciò spiega perché
sia stato il primo metallo ad essere lavorato.
I metalli sono elementi
chimici che si distinguono dagli altri per un insieme di caratteristiche: ad
esempio, sono buoni conduttori di calore e di elettricità e presentano
una lucentezza tipica, che si dice, appunto, «metallica».
Probabilmente fu proprio questa lucentezza che attirò l'interesse dei
nostri lontani progenitori su scaglie, pietruzze e grani di metallo nativo. In
effetti i metalli furono usati in un primo tempo essenzialmente come materiale
per monili e gioielli. Ma già nella fabbricazione dei gioielli i metalli
rivelarono un'altra e più importante proprietà: quella di
lasciarsi ridurre mediante martellatura in lamine sottili (malleabilità)
o in fili sottili (duttilità) senza rompersi. Questa proprietà,,
così diversa da quelle dei materiali tradizionali come la selce, l'osso e
il legno, offriva nuove opportunità, soprattutto in rapporto alla molto
più ampia varietà di forme che era possibile dare agli oggetti di
metallo.
Negli scavi di un villaggio agricolo neolitico a Cayonii Tepesi
(Turchia) si sono trovati alcuni oggetti di rame (due spilli, un alesatore)
risalenti al 7000 a.C. circa. Essi costituiscono una delle testimonianze
più antiche dell'uso intenzionale del metallo in quanto tale, e
cioè non come una semplice pietra: erano stati ricavati infatti mediante
molatura (levigatura) e martellatura da rame nativo. Anche per gli altri metalli
che si trovano allo stato nativo (oro, argento e ferro meteorico) ci sono
reperti del genere, che risalgono a epoche molto antiche. Ovviamente questo modo
di lavorare il metallo non rappresentava ancora una vera e propria tecnica
metallurgica, ma era piuttosto un'applicazione ai metalli delle tecniche di
lavorazione della pietra.
Fra questo stadio primitivo di lavorazione e lo
sviluppo di una metallurgia vera e propria c'era un lungo tratto da percorrere e
ci vollero parecchi secoli per farlo. Durante tutto questo periodo e anche dopo,
in piena età dei metalli, gli utensili di selce, di osso e di legno
propri dell'età neolitica continuarono a essere usati correntemente. La
cosa non deve meravigliare. Come prestazioni gli strumenti in pietra non erano
inferiori a quelli di metallo. A un coltello di selce, per esempio, si
può dare un taglio altrettanto affilato che a un coltello di metallo; in
più, la selce si trova dovunque e le tecniche di lavorazione della
pietra, a differenza di quelle metallurgiche, erano conosciute da tutti (o
quasi). I vantaggi degli strumenti in metallo, rappresentati dalla maggior
durata e dalla maggiore varietà di forme, erano largamente neutralizzati
dall'alto costo di produzione. In effetti, fino al II millennio a.C. i manufatti
in metallo furono rappresentati prevalentemente, se non esclusivamente, da armi,
gioielli e oggetti di lusso ad uso di templi e di regge.
I fabbri primitivi
erano soprattutto dei forgiatori. Lavorando i metalli con il martello,
svilupparono la capacità di ottenere le forme volute e fecero
l'importante constatazione che i metalli riscaldati si lavorano più
facilmente: con tanto maggiore facilità quanto più alta è
la temperatura raggiunta. Di fatto la metallurgia è stata, dopo la
fabbricazione della ceramica, di cui ha utilizzato largamente le esperienze, la
seconda di quelle nuove «arti del fuoco» che negli ultimi 10.000 anni
hanno rappresentato un improvviso e rivoluzionario sviluppo delle antichissime
tecniche di produzione del calore e di controllo della
combustione.
L'innovazione che ha liberato la produzione metallurgica dai
limiti derivanti dalla scarsità di metalli nativi, permettendo di
attingere alle riserve pressoché illimitate (almeno per i bisogni
dell'epoca) dei giacimenti minerari, è stata la messa a punto di un
procedimento per separare i metalli dagli elementi (ossigeno, zolfo, silicio,
ecc.) con cui si trovano normalmente combinati in natura. In verità si
tratta non di un procedimento, ma di una serie di procedimenti diversi, a
seconda dei metalli e degli elementi con i quali ciascun metallo si trova
chimicamente legato.
Anche se diversi l'uno dall'altro, questi procedimenti
fanno capo ad un unico processo, detto di «riduzione», nel quale
l'ossigeno che nel minerale è combinato col metallo, a una certa
temperatura, si separa da questo per unirsi a un altro elemento. L'apparato che
consente alla reazione di svolgersi è la fornace, che all'origine era
costituita da una semplice cavità praticata nel terreno e rivestita di
argilla e di pietre (forno a coppa). Il minerale veniva mescolato con il
combustibile e il fuoco era alimentato mediante qualche forma di tiraggio.
L'ossigeno presente nel minerale si combinava con il carbonio contenuto nel
combustibile e liberava il metallo. Più tardi, per meglio conservare il
calore, il bordo superiore della cavità fu costruito con una
concavità verso l'interno, mentre alla base furono praticati dei fori per
spillare il metallo e per assicurare il tiraggio. Questo forno, detto «a
crogiuolo», era ancora completamente interrato. In seguito, si eressero dei
muri di pietra intorno alla coppa che fungeva da focolare (forno a tino). Il
tiraggio poteva essere naturale o forzato. Per ottenere quest'ultimo il
dispositivo più antico fu probabilmente un tipo rudimentale di mantice
fatto a forma di sacco. Con l'introduzione del soffietto si poterono raggiungere
temperature più alte e una migliore combustione che consentiva di
risparmiare combustibile. La più antica testimonianza di uno strumento
del genere risale al 1600 a.C. in Egitto. Consisteva di un recipiente di
terracotta chiuso da una membrana e di un condotto laterale destinato a
immettere l'aria nel focolare. Sollevando la membrana per mezzo di una
cordicella il recipiente si riempiva d'aria attraverso un'apertura praticata
nella membrana stessa.
Comprimendola poi con il piede, l'apertura si
chiudeva e l'aria contenuta nel recipiente veniva spinta nel condotto laterale.
Il mantice, un tipo di soffietto di forma triangolare in legno e cuoio,
entrò in uso molto più tardi presso i Greci.
RAME E BRONZO
A temperatura ambiente i metalli (ad
eccezione del mercurio, che è liquido) sono solidi, ma a temperature
elevate fondono, ossia passano dallo stato solido a quello liquido. La
temperatura a cui avviene la fusione si dice «punto di fusione» ed
è diversa nei diversi metalli. Il ferro ha il punto di fusione piuttosto
alto. Ottenere una temperatura così elevata presentava notevoli
difficoltà tecniche e questo spiega perché la lavorazione del
ferro sia iniziata più tardi delle altre.
Il rame fu il primo
metallo ad essere utilizzato con una certa frequenza. Il passaggio
dall'utilizzazione del rame allo stato nativo alla separazione del rame dai
minerali che lo contengono avvenne in Egitto nel IV millennio a.C. La malachite,
un carbonato di rame di colore verde che era usato fin dal V millennio come
pigmento e specialmente come cosmetico per tingere le palpebre, è
probabilmente il primo minerale che l'uomo abbia fuso per separarvi il metallo.
È facile infatti trarre il metallo dalla malachite: se si getta un po' di
minerale in un violento fuoco di legna se ne ricava una pallina di rame.
All'inizio il rame fuso veniva versato su semplici cavità ricavate dalla
superficie di un blocco di pietra o di argilla cotta e sagomata in modo tale da
riprodurre la forma desiderata. Solo più tardi si riuscì a
superare le difficoltà che presentano le colate in forme complesse:
quelle, cioè, che richiedono stampi chiusi o divisi in due parti.
I
primi utensili e le prime armi di rame si limitavano a riprodurre quelli
già conosciuti di pietra: asce, scuri, daghe, scalpelli, seghe, ecc. Il
metallo essendo in genere meno fragile della pietra permise di migliorare la
sezione dell'utensile e renderlo più efficiente. L'attrezzo in rame,
inoltre, durava di più e poteva essere ripetutamente affilato. Le daghe
venivano costruite con una nervatura centrale che aumentava la rigidità
laterale, il che permetteva di avere una lama più sottile e più
lunga.
Con la messa a punto delle tecniche di fusione fu possibile fondere
insieme due o più metalli. Si ottengono in questo modo miscele omogenee
di metalli, dette «leghe», che presentano caratteristiche diverse da
quelle dei metalli che le costituiscono, e che talvolta si prestano meglio di
questi alla fabbricazione di utensili. È il caso del bronzo, una lega di
rame e di stagno che ha finito con il dare il proprio nome ad un intero periodo
della storia umana, dell'ottone, una lega di rame e zinco, e dell'acciaio, una
lega di ferro e carbonio.
Il bronzo era già conosciuto verso il 3000
a.C. ed era di uso corrente in Egitto intorno al 2200 a.C. Le caratteristiche
meccaniche di questa lega, specialmente la sua durezza, dipendono dalla
proporzione in cui sono mescolati rame e stagno. Con un tenore del 10 per cento
di stagno si riuscì ad ottenere una lega che, rispetto al rame, non solo
presentava una resistenza alla rottura doppia, ma poteva essere lavorata con
maggiore facilità, soprattutto nelle operazioni di colata in forme
complesse.
L'introduzione del bronzo aumentò l'efficienza degli
utensili e delle armi di metallo. Gli uni e le altre si diffusero ampiamente.
Molti degli odierni arnesi di lavoro risalgono a quest'epoca: la mazza pesante,
l'ascia con foro per il manico, lo scalpello e la lima, uno strumento
quest'ultimo che sarebbe diventato essenziale per la lavorazione del metallo, ma
che in quel tempo sicuramente poteva essere usata solo per lavori di carpenteria
in legno (raspa). Si introdusse anche la spada, derivata dalla daga, la lama
della quale, grazie alla maggior resistenza del bronzo, poté diventare
molto più lunga, senza dover aumentare proporzionalmente la
larghezza.
FERRO
Il più importante progresso
realizzato nel campo della metallurgia fu senz'altro la scoperta di un metodo
per estrarre il ferro dai suoi minerali (magnetite, ematite, limonite, siderite,
ecc.). Non fu un'impresa facile per gli uomini dell'età del bronzo. La
temperatura di fusione del ferro è molto più alta di quella del
rame (1535 gradi C anziché 1083 gradi C). Le fornaci primitive riuscivano
a raggiungere temperature capaci di fondere il rame, che si raccoglieva nella
parte inferiore della fornace da dove veniva fatto colare, ma non il ferro.
Quest'ultimo, infatti, nella fornace invece di colare assumeva l'aspetto di una
massa spugnosa, costituita da impurità e da gocce di metallo puro, che il
fabbro dell'età del bronzo deve avere considerato come del tutto
inutilizzabile. Solo dopo molti tentativi, intorno al 1800 a.C., qualcuno
riuscì a scoprire che quella massa spugnosa, ripetutamente riscaldata e
battuta, si liberava delle scorie e le gocce di metallo venivano pressate
insieme fino a diventare il cosiddetto ferro battuto.
Senonché il
ferro battuto non presenta dei decisivi vantaggi sul rame: è più
malleabile, ma meno duro. Il ferro quindi rimase di difficile produzione e di
scarsa utilità. Solo molto più tardi, attorno al 1400 a.C., alcune
popolazioni del Caucaso scoprirono il processo di «cementazione». Esso
consiste nel riscaldare ripetutamente il ferro in contatto con carbone di legna
in modo che il carbonio contenuto in quest'ultimo si diffonda sulla superficie
del metallo, il quale acquista così una notevole durezza: diventa
acciaio.
Subito dopo questa scoperta, si trovò che era possibile
rendere l'acciaio ancora più duro immergendolo rovente in acqua: è
la cosiddetta «tempra» dell'acciaio, un'operazione che, eseguita su
altri metalli, può sortire effetti del tutto diversi (il rame e il
bronzo, ad esempio, anziché indurirsi si ammorbidiscono). Si era
così riusciti a ottenere un materiale di grande durezza e
rigidità. Con esso si aprì una nuova epoca nella storia
dell'umanità: l'età del ferro.
L'avvento del ferro
segnò la progressiva comparsa di nuovi e migliori utensili, fra i quali
sono da ricordare la tenaglia incernierata, indispensabile per forgiare i
metalli ad alte temperature, la molla, l'incudine per fare i chiodi, la filiera
per trafilare, la sega a telaio, la lima di ferro (che, temprata, poteva essere
utilizzata non solo per i materiali teneri come il legno, ma anche per quelli
duri) e il trapano con sezione a S (tale cioè che allorché viene
fatto rotare, entrambi i tagli taglino in avanti). Il ferro permise inoltre di
ottenere dei vomeri per gli aratri in grado di lavorare anche le terre
più dure e a maggior profondità. All'inizio del I millennio a.C.
l'uso del ferro si era diffuso in un'area che va dall'altopiano iranico al
Tirolo. Ancora una volta, però, l'introduzione del nuovo materiale non
significò la scomparsa dei vecchi: fino al VII secolo a.C. il bronzo fu
usato nella costruzione di utensili in misura pressappoco uguale a quella del
ferro.
Un grande progresso fu realizzato anche nel settore delle armi. Per
esempio con l'introduzione del ferro, il colpo di spada non aveva più
come limite la fragilità della lama, ma solo la forza del braccio umano.
Gli eserciti che ne erano dotati divennero imbattibili. Gli Ittiti, una
popolazione dell'Anatolia, furono forse i primi, verso la metà del II
millennio a.C., a fare largo uso di armi in ferro, che, unite all'uso del
cavallo e del carro da guerra con ruote a raggi permisero loro di fondare, a
spese degli Egizi e dei Babilonesi che erano rimasti all'uso del rame e del
bronzo ed erano del tutto privi di cavalleria, un grande impero destinato a
durare quasi 4 secoli.
Mestoli e brocca decorata in bronzo del V sec. a.C.
METALLI E POTERE
Ogni nuovo metallo, rame, bronzo, ferro, e
ogni nuovo perfezionamento nella sua lavorazione, ha significato un nuovo e
importante progresso dell'uomo verso un più efficace controllo
dell'ambiente, ma ha prodotto anche nuove occasioni di violenza e di
diseguaglianza tra gli uomini. In epoca romana Plinio, nella sua Historia
Naturalis, definiva così il ferro: «ottimo e pessimo strumento della
vita umana, perché con esso fendiamo la terra, piantiamo gli alberi e
seminiamo i giardini, e potando le viti le facciamo ogni anno ringiovanire; con
esso fabbrichiamo le case, e spacchiamo le pietre; e usiamo il ferro per
infiniti altri bisogni. Ma il medesimo ferro usiamo nelle battaglie, nelle
uccisioni e nei latrocinii, e non solo da vicino, ma lanciandolo da lontano, o
con le mani o con gli strumenti».
Monopolizzando l'armamento metallico
il re, il faraone, il governatore, il capo, acquistavano sui propri soggetti un
potere praticamente imbattibile. La possibilità o meno di avere del
metallo in abbondanza condizionò in notevole misura lo sviluppo delle
comunità, delle culture, delle civiltà. Gli Ittiti, che tra i
primi conobbero il segreto della produzione del ferro e della sua trasformazione
in acciaio, sostituirono questo al bronzo per le punte delle lance e delle
frecce e per le spade. Con ciò il loro esercito acquistò una forza
d'urto irresistibile. Essi tennero rigorosamente segreto il procedimento per la
fabbricazione dell'acciaio. Quando verso la fine del XIV secolo a.C. un faraone
egiziano scrisse a un re ittita, con il quale aveva appena concluso un trattato
di amicizia, per chiedergli un rifornimento di ferro, il re ittita mandò
le sue scuse «al suo fratello» e inviò soltanto, come dono, un
pugnale. Questo pugnale fu tenuto in così alta considerazione dal faraone
da meritare un posto fra i magnifici tesori della tomba del figlio, il celebre
Tutankhamon, dove infatti è stato rinvenuto.
Quando l'impero ittita
cadde (intorno al 1200 a.C.), i fabbri si dispersero dovunque. Alcuni di essi
diedero agli Assiri il loro segreto e quindi le armi di acciaio che furono la
condizione della rinascita degli Assiri. Questi, verso il 1000 a.C., cinti di
ferro, discesero nelle regioni circonvicine «come il lupo sull'ovile».
Il ferro fornì loro la maggior parte delle armi offensive e servì
a rafforzare gli elmi, gli scudi, le tuniche e gli stivaletti di cuoio delle
truppe scelte. Nel palazzo dell'imperatore Sargon II (VIII sec. a.C.) furono
rinvenuti quasi 150.000 Kg di barre di ferro non lavorato che, con ogni
probabilità, erano state importate da lontane regioni. Il rifornimento di
un materiale così strategicamente importante non poteva essere lasciato
all'iniziativa dei singoli fabbri che, del resto, non avevano neppure gli
ingenti mezzi necessari per provvedervi. Lo Stato, quindi, acquistava
direttamente il ferro, lo conservava nei magazzini esistenti in ogni
città e lo forniva ai fabbri.
I popoli che non impararono a
fabbricare l'acciaio furono condannati inevitabilmente alla sconfitta. Una
testimonianza di un'epoca molto posteriore ci viene da Polibio (II secolo a.C.).
Nelle sue Storie, egli racconta come i Romani ebbero facilmente ragione dei
Celti sfruttando il fatto che le spade di questi ultimi «erano costruite in
modo da avere efficace solo il primo colpo di taglio; si ottundevano facilmente,
ripiegandosi tanto nel senso della lunghezza quanto in quello della larghezza e
se i soldati non avevano il tempo di raddrizzarle col piede puntandole in terra,
il secondo colpo risultava del tutto vano».
Dopo il 1000 a.C. la
tecnica della lavorazione del ferro si diffuse un po' dappertutto in un tempo
relativamente breve. Il fatto che i giacimenti di minerali di ferro si trovano
praticamente in quasi tutte le regioni favorì questo processo. In Europa
sono state individuate essenzialmente due grandi aree geografiche sviluppate dal
punto di vista metallurgico: l'Europa centro-orientale, dall'Ungheria alla
Svizzera, e la Scandinavia meridionale. Ci furono dei periodi in cui
l'attività della lavorazione del metallo in tali zone superò in
raffinatezza ed efficienza le aree del Vicino Oriente e dell'Europa
sud-orientale.
L'introduzione di metodi sempre più efficienti ed
economici di lavorazione del ferro permise di averlo a buon mercato. Il ferro
penetrò quindi nella vita quotidiana, nelle campagne, sotto le forme
più svariate di utensili e applicazioni. Divenne possibile lavorare le
terre anche più dure e pietrose, liberarle degli alberi e scavare canali
di drenaggio. Aumentò di conseguenza la superficie coltivata e la
popolazione. Analogamente, si accrebbe l'efficienza delle
manifatture.
FABBRO, FABBRICA, FORGIA
«Fabbro» viene dal latino faber
che indicava genericamente l'operaio. Di quale operaio si trattasse era indicato
dall'aggettivo che seguiva: il faber ferrarius era il lavoratore del ferro, il
faber tignarius (da tignum = «trave») era il falegname, e così
via. Fabrica, derivato di faber, indicava sia l'attività, sia l'officina
del fabbro. In questo secondo significato da fabrica (o faurica) ferrea è
venuto il francese forge, da cui l'italiano «forgia». La forgiatura (o
«fucinatura») è il procedimento con il quale si dà la
forma voluta a un pezzo di metallo sfruttandone la plasticità e
cioè lavorandolo a caldo con martelli, magli o presse.
ECONOMIA PRODUTTIVA E SOCIETÀ COMPLESSE
Con l'espressione «economia di
sussistenza» si indica l'economia di quelle popolazioni che non sono in
grado di produrre stabilmente più di quanto consumano. Le bande di
cacciatori-raccoglitori che si aggiravano per il mondo durante il Paleolitico,
per esempio, salvo casi sporadici, raccoglievano o producevano beni materiali
(cibo, utensili, armi, ecc.) destinati ad essere usati e consumati entro breve
tempo. Riguardo al cibo, in particolare, le loro capacità tecniche non
permettevano né di conservarlo a lungo, né di produrne in
quantità tale da costituire scorte men che modeste. Gli scambi fra i vari
gruppi erano molto ridotti, ed era assai difficile che un gruppo potesse
fermarsi a lungo in un posto. La pratica del nomadismo, anzi, era la regola,
soprattutto in quegli ambienti in cui il clima variava notevolmente da una
stagione all'altra: in questo caso, infatti, poiché durante l'inverno la
vegetazione commestibile si fa rara, bisognava seguire le mandrie nelle loro
migrazioni in cerca di pascoli.
L'economia che possiamo chiamare
«produttiva» comparve più tardi, con l'avvento
dell'agricoltura, quando divenne possibile produrre una quantità di beni
superiore a quella strettamente necessaria alla sopravvivenza del gruppo.
È in questo momento che, superato il tradizionale nomadismo dei gruppi di
raccoglitori-cacciatori, sono nati i primi insediamenti stabili con strutture
architettoniche permanenti. Ed è in questo momento che sono comparse le
prime forme evidenti di gerarchia o di rigida divisione di ruoli fra i membri di
uno stesso gruppo.
L'economia produttiva è caratterizzata
dall'esistenza di un «sovrappiù» (o surplus) di beni. Questo
sovrappiù può avere destinazioni diverse: lo si può, per
esempio, consumare subito, con il che, probabilmente, si realizza un
miglioramento nella qualità della vita di tutti o di parte dei membri del
gruppo; oppure lo si può usare per costituire scorte in vista di bisogni
futuri e di possibili situazioni di emergenza; oppure, ancora, lo si può
scambiare con beni prodotti da altri gruppi umani. In effetti, quando le
pratiche agricole consentirono che un campo producesse stabilmente più
del fabbisogno immediato degli uomini che lo lavoravano, si svilupparono
tecniche di conservazione del cibo e meccanismi di accumulazione e di
ridistribuzione delle ricchezze che richiedevano un'organizzazione sociale
incomparabilmente più complicata di quella caratteristica dei gruppi di
cacciatori-raccoglitori.
La grande innovazione connessa all'economia
agricola e alla formazione di un sovrappiù consisteva nel fatto che una
parte della popolazione poteva ormai vivere attingendo alle eccedenze prodotte
dal lavoro altrui. In altre parole, una parte della popolazione poteva consumare
tutti i beni necessari al proprio sostentamento senza doversi occupare
direttamente della loro produzione: liberata dalla necessità di
procurarsi il cibo (o altri beni primari), aveva la possibilità di
impiegare il proprio tempo in altre attività. Questa situazione
favorì una generale e accentuata divisione del lavoro, che
comportò, almeno di norma, una maggiore efficienza delle tecniche
produttive e perciò una sempre più stabile e larga formazione di
eccedenze.
Nell'ambito delle economie caratterizzate da un'accentuata
divisione del lavoro si possono facilmente distinguere tre diversi settori di
attività. L'insieme delle attività agricole e di allevamento
(eventualmente integrate da quelle della caccia, della pesca e della raccolta)
costituisce il settore che chiamiamo «primario». In quello detto
«secondario» rientrano le attività (come ad esempio
l'artigianato, le costruzioni, ecc.) che consistono nel trasformare le materie
prime in manufatti. Come si vede, tutte le attività comprese in questi
due settori hanno per oggetto la produzione di beni materiali. Il cosiddetto
«terziario», invece, comprende le professioni che non producono beni,
ma servizi; è il settore dei servitori, dei mercanti, dei guerrieri, dei
sacerdoti, dei poeti, e di tutti quei personaggi il cui compito essenziale
consiste nell'organizzare e dirigere il lavoro altrui, nell'amministrare le
ricchezze prodotte dagli altri e, in definitiva, nel decidere per gli
altri.
In qualsiasi società in cui la divisione del lavoro sia
sufficientemente sviluppata, ad ogni funzione socialmente utile corrisponde una
«remunerazione sociale»: il sarto che fa abiti per tutti e il muratore
che costruisce o ripara le case di tutto il villaggio, anche se non producono
grano e non cacciano la selvaggina, hanno diritto ad una porzione del grano
prodotto dai contadini o della selvaggina catturata dai cacciatori. Questa
porzione (che è tanto più grossa quanto maggiore è
l'utilità riconosciuta alla loro attività) è la loro
remunerazione sociale. La remunerazione sociale non è fatta però
soltanto di beni materiali, e qualche volta, anzi, i beni materiali, per quanto
indispensabili, non sono affatto la cosa principale. Accade cioè che il
rispetto, l'affetto o il timore che i membri della collettività
manifestano verso chi esercita una certa funzione, ossia il prestigio di cui
questa funzione gode, costituiscano una remunerazione ancora più
importante della quantità di beni a cui dà diritto. C'è poi
una funzione sociale che, per così dire, si remunera da sé:
l'esercizio del potere ossia la facoltà di decidere per gli altri e degli
altri, che è insieme un servizio, di cui nessuna società
organizzata può fare a meno, e un piacere, a cui tutti (almeno in
generale) aspirano.
In ogni settore di attività esistono mansioni
che implicano l'assunzione di decisioni a cui gli altri debbono adeguarsi: anche
nelle più primitive bande di cacciatori c'è un capo-caccia che ha
il compito, magari soltanto per il tempo di una battuta o di una spedizione, di
dirigere l'operato di tutti. Nelle società evolute queste mansioni
tendono a fissarsi in vere e proprie professioni, alcune delle quali, in special
modo quelle attinenti all'amministrazione e al governo della collettività
in generale, sin dagli inizi della civiltà urbana hanno goduto di un
apprezzamento nettamente superiore a quello riservato alle mansioni puramente
esecutive o alle attività manuali legate alla produzione materiale dei
beni: queste professioni hanno pertanto beneficiato di remunerazioni sociali
più elevate.
Così, dalla relativa abbondanza di beni
garantita dall'avvento dell'economia produttiva e dalla conseguente formazione
di larghe eccedenze è nata (assieme ad un'accentuata divisione del lavoro
e alla separazione delle funzioni amministrative e di comando da quelle
immediatamente produttive) la diseguaglianza tra gli uomini, e cioè la
divisione della società in classi contrassegnate non solo dalla
diversità delle mansioni, ma anche (e soprattutto) dall'ineguale
distribuzione del potere, del prestigio e della ricchezza.
L'UOMO, LA TERRA E IL LAVORO
Il latino humus si rifà a
un'antichissima radice indoeuropea che significa «terra». Alla stessa
famiglia appartiene homo, l'uomo, creatura terrena per eccellenza, in
opposizione agli Dei, creature celesti. Ma alla stessa famiglia di humus
appartiene anche humilis, «umile», nel significato letterale di
«aderente alla terra» e perciò «basso, spregevole».
Più umili di tutti, nel senso di vicini alla terra, sono da sempre i
contadini, il cui atteggiamento consueto quando lavorano è di star chini
al suolo. Ma «umili» i contadini lo sono anche nel senso che da sempre
costituiscono una classe sociale inferiore; e questa loro umiltà l'hanno
trasmessa a tutti gli altri lavoratori manuali. Classi inferiori, classi umili,
classi lavoratrici sono da sempre sinonimi.
L'idea del piegare la schiena
è presente già nell'etimologia di «lavorare». Il latino
labor significa lavoro, ma soprattutto nel senso negativo di fatica:
evidentemente connesso a labare, «vacillare, barcollare» e a labi,
«scivolare strisciare, cadere in terra», richiama l'immagine di chi si
piega sotto un peso eccessivo o di chi, come il contadino, si curva verso terra
come se cadesse. In francese labourer ha conservato il significato di
attività faticosa, legata alla terra, e se in un primo tempo era usato
anche in senso generico, a partire dal Seicento quel significato ha finito con
il prevalere nettamente: labourer è diventato il termine tecnico per
indicare uno specifico (e faticoso) lavoro agricolo: l'aratura.
L'idea del
lavoro come sofferenza (che richiama alla memoria il racconto del Genesi a
proposito della condanna di Adamo a guadagnarsi il pane con il sudore della
fronte) si è conservata in molte lingue e dialetti neolatini: quelli, per
esempio, che usano «faticare» come sinonimo di «lavorare»,
oppure quelli che hanno adottato al suo posto un termine derivato dal latino
tripalium che era uno strumento di tortura e di morte costruito, come suggerisce
il nome stesso, con tre pali: è il caso del francese travailler, dello
spagnolo trabajar, del piemontese travaié, del genovese travagià,
del siciliano travagghiari, del sardo traballari, ecc.
Ma il valore del
lavoro è sempre stato ambiguo: di volta in volta nobilita e asservisce.
In latino c'è un altro gruppo di termini che servono a designare il
lavoro, ma con una connotazione positiva: opera, che indica il lavoro nel senso
di «attività lavorativa», e opus, che significa lavoro nel
senso di «ciò che è stato prodotto». La radice di
entrambi è la stessa di ops che vuol dire «ricchezza, potenza,
autorità»: il lavoro qui è un bene, ed anzi è la fonte
di ogni bene. Se da ops viene «opulenza», da opera viene
«operaio» (ouvrier in francese, obrero in spagnolo, ecc.), e da opus,
attraverso i suoi composti opifex (= «lavoratore»: -fex, da facere,
indica colui che fa qualcosa, in questo caso un lavoro) opificium e opificina
vengono «opificio», «ufficio» e i suoi derivati,
«officina» e «fucina».
LE PIRAMIDI E LA SOCIETÀ EGIZIA
Le piramidi d'Egitto furono costruite in
tempi antichissimi. La prima piramide propriamente detta è quella del
faraone Gioser della III dinastia, il cui regno iniziò nel 2700 a.C.; la
loro funzione era di ospitare le spoglie mortali del faraone e di parte del suo
seguito, e di proteggere i tesori del corredo funebre da eventuali
saccheggiatori. Si comprende subito che per la costruzione di questi poderosi
monumenti fu necessario un enorme dispendio di energie: migliaia di uomini
dovevano lavorare per anni, tagliando e rifinendo i grandi blocchi di calcare,
trasportandoli sul sito del cantiere, mettendoli in posa e ricoprendoli.
Il
materiale necessario per la costruzione veniva estratto da cave di calcare nelle
vicinanze del cantiere, caricato su slitte trascinate da decine di uomini fino
alle rampe costruite in mattoni di argilla cruda che dovevano permettere la posa
dei blocchi. Tali rampe partivano dai quattro lati della piramide e, a mano a
mano che la costruzione cresceva, venivano allungate lungo un percorso a spirale
intorno alla costruzione con pendenze intorno al 20 per cento, giungendo fino
alla sommità. Alcune di queste venivano interrotte e smantellate durante
il lavoro, quando i fianchi della piramide si restringevano troppo per
contenerle tutte. Succedeva a volte che il progetto iniziale dovesse essere
corretto perché troppo ambizioso, come nel caso della piramide del
faraone Snofru, la quale era stata pensata troppo alta e quindi con una pendenza
critica dei suoi quattro lati. Circa a metà costruzione ci si accorse che
tale inconveniente avrebbe compromesso la stabilità e quindi fu fatta
più bassa, riducendo la pendenza dei lati e ottenendo un curioso profilo
romboidale.
Secondo la tradizione, per la costruzione della piramide di
Cheope, una delle più imponenti, sarebbero stati impiegati per un periodo
di 20 anni circa 100.000 uomini, che si avvicendavano con turni di 3 mesi.
È stato appurato che tali cifre non sono affatto esagerate. Calcolando
l'attrito delle slitte sul terreno si è trovato che un masso del peso di
2500 kg, come quelli usati in tali costruzioni, doveva essere trascinato da una
sessantina di persone sul piano e da un centinaio sulle rampe. Le slitte
formavano dunque una lunga colonna, che andava dalla cava al cantiere. Tra una
slitta e l'altra doveva esserci una distanza di circa 50 m. Nel cantiere, oltre
agli operai, c'era il personale necessario a rifornire questi ultimi di acqua e
viveri, e quello addetto alla manutenzione degli attrezzi di lavoro. Basandosi
sull'ipotesi che tutta l'area fosse utilizzata secondo un criterio ottimale di
risparmio di energie, si è calcolato che le persone presenti
contemporaneamente nel sito della costruzione dovessero oscillare tra le 33.000
e le 52.000. Supponendo turni di avvicendamento di 3 mesi circa, le cifre
fornite dalle fonti antiche risultano del tutto realistiche.
Per capire
meglio che cosa queste cifre significassero le si può confrontare con le
stime che siamo in grado di formulare relativamente alla popolazione dell'antico
Egitto. Secondo un censimento effettuato nel I secolo a.C., l'Egitto contava
circa 7 milioni di abitanti; ammettendo che la popolazione fosse cresciuta nei
secoli precedenti con un tasso di incremento annuo dello 0,36 per mille (che
molti studiosi considerano del tutto probabile), si può calcolare che
intorno al 2700 a.C. in Egitto vivessero più o meno 3 milioni di persone.
Su queste, la popolazione attiva, ossia la massa delle persone atte al lavoro,
non doveva superare il milione.
La costruzione delle piramidi impegnava
dunque un'alta percentuale di tutta la manodopera disponibile. Per affrontare
imprese di queste proporzioni erano necessarie un'organizzazione efficiente e
una solida struttura statale. In effetti le prime piramidi comparvero solo dopo
l'unione del Basso e dell'Alto Egitto sotto un'unica potente monarchia. Alcuni
studiosi hanno messo in relazione la dimensione delle piramidi fatte costruire
dai faraoni delle prime dinastie con le strutture dell'antico Stato egizio. La
grandiosità di tali opere sarebbe insomma un buon indice della
capacità amministrativa dello Stato. La piramide di Cheope, ad esempio,
innalzata durante il periodo più florido per lo Stato, è alta 146
m, e si calcola che abbia richiesto l'estrazione e il trasporto di qualcosa come
2.640.000 mc di calcare, impresa davvero ciclopica, se si pensa che gli Egizi
disponevano soltanto della leva e del piano inclinato.
La manodopera
necessaria per queste imprese veniva reclutata con un sistema di corvée
che nell'antico Egitto esisteva da tempi immemorabili e che è rimasto
pressoché inalterato per millenni: lo si è utilizzato ancora nel
secolo scorso per la costruzione del canale di Suez. Corvée è una
parola francese che deriva dall'espressione latina opera corrogata, che
significa alla lettera «lavoro a cui si è invitati a partecipare
insieme ad altre persone»: rogare vuole infatti dire «chiedere,
pregare». Naturalmente qui le preghiere non c'entravano affatto:
semplicemente la popolazione contadina era costretta a lavorare gratuitamente
per il faraone per un certo periodo dell'anno.
Per realizzare opere
dispendiose come le piramidi, oltre alla manodopera, era necessario disporre
anche di notevoli scorte di beni di ogni genere. Le condizioni per un tale
accumulo di ricchezza non esistettero fino all'inizio del Regno Antico. Con le
prime dinastie di faraoni, però, avvennero alcuni grossi cambiamenti. La
tradizionale agricoltura di sussistenza, ancora praticata nei villaggi, non
sarebbe stata sufficiente a mantenere l'apparato amministrativo e militare dello
Stato, ossia i funzionari e i soldati del faraone. Si rese pertanto necessario
un intervento statale diretto ad aumentare la produzione agricola. Ricorrendo
alle corvée contadine, i faraoni fecero livellare il terreno per favorire
l'allagamento naturale da parte delle acque del Nilo e costruirono a poco a poco
un'enorme rete di canali di irrigazione. Istituirono poi la magistratura dei
controllori delle acque, incaricata della manutenzione di tutte queste opere e
della sorveglianza sulle risorse idriche del Paese. Istituirono anche un catasto
per censire le proprietà terriere e stabilirono che dovesse essere
aggiornato ogni due anni. Ma soprattutto, si impadronirono delle terre su cui
facevano costruire opere di irrigazione o simili. In questo modo, mentre il
faraone diventava il più grande proprietario terriero dell'Egitto, i
contadini venivano trasformati in dipendenti dello Stato.
Al termine di
questa fase di intensi cambiamenti, la produttività agricola era
effettivamente cresciuta: con la nuova organizzazione un minor numero di
contadini era in grado di produrre più di quanto in precedenza non
facesse l'intera popolazione dei villaggi. Era un risultato molto soddisfacente,
che però aveva determinato una preoccupante situazione di
«disoccupazione»: si era formata cioè un'eccedenza di
manodopera che non poteva più trovare impiego nell'agricoltura e
rischiava di restare inutilizzata. Nello stesso tempo lo Stato si trovava ad
avere, per effetto dall'accumulo dei surplus agricoli, una larga
disponibilità di beni che dovevano essere in qualche modo consumati. Le
piramidi (o altre simili opere pubbliche) erano un modo per impiegare questo
sovrappiù di uomini e di risorse. Sarebbe azzardato affermare che le
piramidi siano state costruite soltanto a questo scopo. È certo
però che, se da un lato la loro costruzione servì anche a
risolvere il problema della disoccupazione contadina, dall'altro essa fu resa
possibile proprio dall'esistenza di forti eccedenze di beni e di
manodopera.
Per la costruzione delle piramidi non erano necessari solo
manovali. Anche più importante, anzi, era la richiesta di personale
qualificato, ingegneri, architetti, scribi, pittori, scultori, amministratori,
mercanti, artigiani. Tutte queste categorie erano destinate ad ingrossare le
file dei cortigiani e dei funzionari di vario tipo alle dipendenze del faraone,
ossia dello Stato. Questa tendenza all'aumento dei funzionari proseguì
senza problemi per un certo tempo, finché, cioè, la produzione di
ricchezza continuò a crescere; raggiunto però il livello che
potremmo chiamare «di saturazione» del sistema, cominciarono le
difficoltà. Il faraone non poteva più contare su un aumento
indefinito delle risorse disponibili, mentre la sua corte, che costituiva ormai
un ampio ceto di privilegiati e aveva acquisito un alto livello di consumi, si
mostrava propensa a consumare sempre di più. In altre parole il surplus
agricolo diminuiva costantemente, mentre le spese della corte crescevano. La
conseguenza fu un lento decadere dell'efficienza dello Stato e delle condizioni
economiche del Paese. Anche le piramidi diventarono meno imponenti: da quella di
Cheope si passò a quella di Chefren, un po' più piccola, e ad
altre sempre più piccole, fino a che l'ultimo faraone della IV dinastia,
non se ne fece costruire affatto.
Sovrapposizione virtuale dello stato attuale della necropoli di Saqqara
Ricostruzione virtuale della necropoli di Saqqara
Ricostruzione della piramide di Djoser (o Zoser) a Saqqara
Veduta del recinto sacro della dea Hathor a Dendera con sovrapposizione virtuale dello stato attuale dell’area
Karnak: volo virtuale con avvicinamento al recinto sacro di Ammone
Karnak: ricostruzione del tempio di Ammone con sovrapposizione dello stato attuale dell’area
Luxor: volo virtuale sull’area del recinto sacro di Ammone
Luxor: ricostruzione del tempio di Ammone e sovrapposizione dello stato attuale dell’area
Deir el-Bahri: volo virtuale sull’area del tempio funerario della regina Hatscepsut
Veduta della ricostruzione del tempio funerario della regina Hatscepsut sovrapposta all’immagine dello stato attuale dell’area
Veduta della ricostruzione del villaggio e del tempio di Hathor, a Dendera, sovrapposta all’immagine dello stato attuale dell’area
BENI E MERCI
In economia si chiama «bene» tutto
quello che può servire alla soddisfazione di un bisogno: ogni cosa che
presenti qualche utilità o che abbia (come anche si dice) un qualsiasi
«valore d'uso» è un bene. Sono beni, dunque, l'aria che
respiriamo, il pane di cui ci nutriamo, l'abito che indossiamo, l'automobile con
cui andiamo in giro, ecc. I beni economici si possono raggruppare in varie
categorie. Si distinguono per esempio i beni «immobili», che sono
quelli che fanno corpo con il suolo (la terra, i corsi d'acqua, gli edifici,
ecc.) dai beni «mobili», che sono tutti gli altri. Si distinguono
ancora i beni «di consumo», che sono i prodotti destinati al consumo
immediato (e che, come il pane, ad esempio, nel consumo vengono distrutti) dai
beni «capitali» o «mezzi di produzione», che sono invece
tutti quei beni la cui utilità consiste appunto nella produzione di altri
beni (es: macchine, attrezzi, ecc.). Si parla di «beni di consumo
durevoli» a proposito di quei beni di consumo, come l'automobile o gli
elettrodomestici, che possono essere usati ripetutamente.
Alcuni beni hanno
la proprietà di essere «merci», ossia di poter essere scambiati
con altri beni in quantità determinate. Questa proprietà è
quel che si chiama «valore di scambio». Un bene può avere un
altissimo valore d'uso e un valore di scambio nullo: l'aria, ad esempio, non
solo è utile, ma indispensabile alla vita, eppure nessuno (almeno di
norma) paga per respirarla. L'aria, dunque, non ha alcun valore di scambio, non
è una merce. Viceversa ci sono delle merci che hanno un valore d'uso
piuttosto basso e un valore di scambio altissimo: è il caso dei gioielli,
che costano molto cari e sono quasi inutili (soddisfano il bisogno di farsi
belli, che è molto antico e diffuso, ma non è certo un bisogno
primario). Naturalmente nessuna merce può essere totalmente priva di
valore d'uso (totalmente inutile), perché altrimenti nessuno la
richiederebbe in cambio di qualche altra cosa; ma il valore di scambio di una
merce non è affatto proporzionale al suo valore d'uso.
In che cosa
consiste dunque questo valore di scambio e, più in generale, che cosa
induce gli uomini a scambiarsi delle merci? Per capirlo converrà partire
da un esempio molto semplice: quello di un contadino che va al mercato per
vendere il suo grano e per comprare della stoffa con cui intende farsi un
vestito nuovo. Il contadino fa un duplice scambio: la prima volta dà una
merce (il grano) e riceve denaro, la seconda volta dà denaro e riceve una
merce (la stoffa). La regola generale di tutti gli scambi commerciali è
che ciò che si dà abbia lo stesso valore di ciò che si
riceve in cambio; altrimenti non si tratta di scambi commerciali, ma di truffe.
In queste sue operazioni, dunque, se non ha truffato nessuno e se non è
stato truffato da nessuno, il contadino non ha né guadagnato né
perduto: ha venduto il grano al suo valore e ha acquistato la stoffa al suo
valore. Ma allora, chi glielo ha fatto fare?
Il fatto è che il
contadino può consumare solo una parte del grano che ha raccolto e il
resto del grano non gli serve, ossia non ha per lui nessun valore d'uso; ha
però un valore di scambio, nel senso che può venderlo e realizzare
così in moneta sonante il suo valore. D'altra parte il contadino ha
bisogno di coprirsi, sicché la stoffa ha per lui un alto valore d'uso e,
poiché non è in grado (o non ha voglia) di fabbricarsela con le
sue mani, deve comprarla pagando al venditore il suo giusto valore (di scambio).
Anche se non ci ha guadagnato neppure una lira, liberandosi del grano di cui non
aveva bisogno e procurandosi la stoffa che gli è necessaria, il contadino
si è comportato in modo assolutamente razionale.
Anche il
commerciante di stoffe al quale il contadino si rivolge per il suo acquisto,
personalmente non sa che cosa farsene di tutte le stoffe che ha in negozio;
può soltanto venderle e con il ricavato della vendita acquistare altre
merci (per esempio il grano) di cui invece ha bisogno. Se ha venduto le stoffe
al loro valore, e se ha comprato le merci di cui ha bisogno al loro valore,
senza truffare nessuno e senza essere truffato da nessuno, anche lui, come il
contadino, non ha né guadagnato né perduto (in termini di valore
di scambio), ma ha fatto ugualmente il suo interesse (in termini di valore
d'uso).
Una differenza tra il contadino e il commerciante di stoffe sembra
tuttavia esserci. Il contadino vende per comprare: vende il grano da lui stesso
prodotto e compra la stoffa che gli serve per il vestito. Il commerciante invece
non produce un bel niente e il suo mestiere è proprio quello di comprare
per rivendere: compra stoffe da chi le fabbrica e le rivende a chi ne ha
bisogno. E qui sembra proprio che ci guadagni: se infatti per una stoffa paga
100 al produttore, la rivende poi a 150 al contadino. Come mai una stoffa che
costa 100 a prezzo di fabbrica costa 150 a chi la compra al negozio? Il
contadino farebbe forse meglio a rivolgersi direttamente al produttore di
stoffe, tagliando fuori il commerciante e risparmiando la differenza. Il
contadino, anzi, potrebbe consegnare direttamente il suo grano al produttore di
stoffe (che certamente ne ha bisogno, come tutti, per mangiare) e ricevere in
cambio la stoffa: in questo modo farebbe a meno anche del denaro.
Qualche
volta succede appunto così: lo scambio diretto delle merci si chiama
«baratto» ed è la più antica forma di commercio,
un'attività che ha preceduto la comparsa del denaro. In pratica,
però, almeno nelle società complesse, dove esiste un'accentuata
divisione del lavoro, non conviene quasi mai ricorrere al baratto. Il contadino
del nostro esempio, infatti, non ha bisogno solo di stoffe, ma anche di scarpe,
di attrezzi, di libri, ecc. Scambiare piccole porzioni del suo grano con tutte
le merci di cui può avere bisogno gli costerebbe una gran fatica. Ogni
scambio diventerebbe una cosa tremendamente complicata. La funzione del denaro
è appunto quella di eliminare una parte di queste complicazioni. Quanto
al commerciante, il suo lavoro consiste proprio nell'agevolare gli scambi:
compra all'ingrosso e rivende al minuto; rende accessibili ai consumatori merci
che altrimenti sarebbe difficile trovare e aiuta i produttori a vendere i propri
prodotti. La stoffa che vende ai suoi clienti è esattamente la stessa che
è uscita dalle mani del produttore, ma vale di più, perché
il lavoro del commerciante l'ha resa accessibile al compratore, risparmiandogli
un sacco di fastidi.
Il che si può esprimere dicendo che il
commerciante non produce materialmente cose ossia beni, ma servizi; e che i
servizi, anche se non sono «cose», sono però merci nel senso
che hanno anche loro un preciso valore di scambio. Nel nostro esempio questo
valore è rappresentato dalla differenza tra il prezzo che la stoffa ha
alla fabbrica e quello che ha al negozio. Certo, può accadere che un
commerciante aumenti arbitrariamente il prezzo delle sue merci; di norma,
però, le vende al loro valore, che naturalmente comprende anche il valore
del servizio prestato dal commerciante.
Come si fa a determinare il valore
di scambio di una merce in generale (bene o servizio che sia)? Secondo la teoria
detta del «valore-lavoro», che è stata elaborata tra Sette e
Ottocento da alcuni grandi economisti come Adam Smith (1723-1790), David Ricardo
(1772-1823), Karl Marx (1818-1883) ecc. il valore di una merce dipende dalia
quantità di lavoro direttamente e indirettamente necessaria per produrla.
Tutte le merci hanno una caratteristica comune: sono prodotti del lavoro umano.
Si può dire, anzi, che tutte le merci siano lavoro umano realizzato nel
senso che nella produzione di merci il lavoro si materializza, diventa esso
stesso in qualche modo «cosa». Secondo la teoria del valore-lavoro,
insomma, la quantità di lavoro umano incorporato in una merce (bene o
servizio che sia) darebbe la misura del valore di scambio della merce
stessa.
Come si fa a misurare quanto lavoro è incorporato in una
merce, per esempio in un apparecchio televisivo? Si dovrà calcolare
innanzi tutto il lavoro direttamente impiegato nella fabbricazione
dell'apparecchio televisivo stesso. Ma in questa fabbricazione sono stati
impiegati e consumati, oltre al lavoro, dei mezzi di produzione (materie prime,
energia elettrica, macchine ed edifici). Si dovrà quindi tenere conto
anche del lavoro precedentemente speso nella fabbricazione di tali mezzi di
produzione. Anche la produzione di questi ultimi ha richiesto lavoro e anche di
questo si dovrà tenere conto e così ripercorrere all'indietro
tutte le successive fasi del processo produttivo. Alla fine la quantità
di lavoro potrà essere espressa molto esattamente in ore di lavoro, o in
frazioni di ore.
Senonché il lavoro è sempre lavoro di
qualcuno e ogni lavoratore è diverso da ogni altro: c'è chi
è più bravo e chi meno, chi è più svelto e chi
più lento e così via. Diverse sono, soprattutto, le condizioni
tecniche in cui ciascuno opera: un lavoro fatto a macchina richiede di solito
meno tempo di un lavoro fatto a mano. Come è possibile, allora, usare il
lavoro come misura del valore di una merce se il tempo di lavoro dipende caso
per caso da una quantità indefinita di fattori diversi?
La risposta
è piuttosto semplice: il lavoro che misura il valore di una merce non
è il lavoro effettivamente speso nella fabbricazione di quella
particolare merce, ma il tempo di lavoro che è necessario in media a
produrre quel tipo di merce in date condizioni tecniche e sociali. Così,
se per fabbricare bulloni si adoperano normalmente delle macchine, chi si
metterà a produrre bulloni servendosi di semplici attrezzi manuali
impiegherà un'infinità di tempo in più, ma il prodotto del
suo lavoro non acquisterà per questo un valore superiore: ci sarà
semplicemente uno spreco di forza lavoro. Viceversa, se un certo oggetto viene
comunemente fabbricato a mano, chi fosse in grado di fabbricarlo a macchina
impiegherebbe meno tempo, ma il suo prodotto non perderebbe per questo di
valore: al contrario, impiegando meno forza lavoro, e cioè producendo a
costi più bassi, il fabbricante dotato di macchine godrebbe di un margine
di guadagno maggiore di quello dei suoi concorrenti.
Nelle moderne
società industriali è proprio la prospettiva di questo più
ampio margine di guadagno (misurato dalla differenza tra il tempo di lavoro in
media necessario a produrre una data merce e il minore tempo di lavoro
realizzabile con metodi e impianti innovativi) che costituisce l'incentivo
più forte al progresso tecnico. È evidente che quando una
innovazione tecnica si generalizza (ossia viene adottata normalmente da tutti i
produttori) il vantaggio di chi l'ha introdotta si annulla: il valore delle
merci, infatti, non può che adeguarsi al nuovo livello tecnico,
diminuendo in proporzione alla diminuzione della quantità di lavoro
necessaria in media per produrle. Si ripropone allora l'opportunità di
cercare altre innovazioni, che assicurino almeno per un certo tempo nuovi e
più ampi margini di guadagno; e il processo va avanti così,
indefinitamente.
Nelle società preindustriali le cose non andavano
sempre in questo modo e quel tipo di incentivo al progresso tecnico era per
diverse ragioni meno operante o assente del tutto. Poteva accadere, per esempio,
che tra i diversi produttori non ci fosse alcuna concorrenza; oppure che il
costo dell'innovazione tecnica apparisse troppo alto rispetto ai benefici che se
ne potevano aspettare; oppure, ancora, che il costo del lavoro fosse così
basso da rendere inutile qualsiasi innovazione volta a risparmiare sul suo
impiego. Il che non vuol dire che nelle società preindustriali non ci
fosse progresso tecnico. Quando c'era, però, non necessariamente era
diretto a ridurre i tempi di lavoro. I motivi che spingevano all'innovazione
potevano essere altri: il desiderio di ottenere un prodotto migliore, ad
esempio, o di compiere operazioni che con i metodi tradizionali risultavano
impossibili.
LA MONETA
Come già abbiamo avuto modo di dire,
attività commerciali più o meno estese sono esistite fin da tempi
molto antichi, ancora prima della comparsa di un'economia agricola. I nostri
lettori ricorderanno, per esempio, quanto abbiamo detto circa la diffusione nel
Paleolitico di certi materiali (ambra, conchiglie, selci di particolare pregio)
in aree geografiche molto lontane dai luoghi di provenienza. È probabile
che tale diffusione fosse il risultato di una catena di scambi a breve raggio
tra gruppi umani contigui. Con la nascita di un'economia agricola e soprattutto
con l'avvento delle prime civiltà urbane il commercio (anche su lunghe
distanze) divenne, oltre che una possibilità, una necessità: basta
pensare al ruolo che dovette avere in questo sviluppo la crescente richiesta di
materiali, come il legname da costruzione o i metalli, che non erano più,
come la pietra, facilmente reperibili ovunque.
I più antichi scambi
commerciali avvenivano nella forma del baratto. Ma il loro moltiplicarsi rese
necessario superare gli inconvenienti dello scambio diretto delle merci. In
particolare si impose la necessità di trovare una misura dei valori di
scambio delle diverse merci che fosse relativamente sicura e largamente
accettata. Si trattava, in sostanza, di trovare una merce che servisse da
«moneta», ossia che fosse un comodo equivalente per qualsiasi altra
merce, come lo sono oggi i biglietti di banca o il denaro coniato dalla zecca di
Stato. La scelta cadde naturalmente sulle merci a cui veniva riconosciuto
generalmente una qualche utilità e che, pertanto, potevano essere
facilmente scambiate: il sale, le pelli, gli schiavi, il bestiame.
Questo
tipo di beni avevano una loro specifica utilità, come oggetti di consumo
(il sale, le pelli) o come strumenti di produzione (gli schiavi, il bestiame):
erano cioè valori d'uso. Ma quando furono utilizzati anche per acquistare
o vendere altri beni, acquistarono la funzione di «equivalente
generale» di tutte le merci, ossia di strumento per mezzo del quale il
valore di tutte le altre merci poteva essere misurato. In sostanza, un bene (ad
esempio, le pelli) da semplice valore d'uso diventa merce (acquista cioè
un determinato valore di scambio) allorché viene effettivamente scambiato
con un'altra merce nella forma del baratto (pelle contro grano). Infine, quando
viene utilizzato per misurare le quantità rispettive nello scambio tra
altre due merci (grano contro vino) diventa denaro, moneta, «equivalente
generale». Supponiamo che Tizio voglia cedere del vino in cambio di grano e
che Caio voglia cedere grano in cambio di vino; e supponiamo che Tizio e Caio
per stabilire quanto vino dovrà essere ceduto in cambio di un certo
quantitativo di grano oppure quanto grano dovrà essere ceduto in cambio
di un certo quantitativo di vino (ossia per stabilire la ragione di scambio
vino/grano) decidano di valutare il proprio vino e il proprio grano in funzione
di un'altra merce a cui sono entrambi interessati, per esempio le pelli: diremo
allora che le pelli funzionano come moneta nella scambio vino/grano tra Tizio e
Caio. A questo punto, cioè, le pelli hanno acquistato il
«privilegio» (se così si può dire) di rappresentare e
misurare il valore di scambio di altre merci, che nel caso concreto sono il vino
e il grano, ma che potrebbero essere qualsiasi merce; hanno insomma acquistato
il privilegio di esprimere il valore delle merci in generale.
Ad un livello
già piuttosto elevato di organizzazione commerciale, la funzione di
moneta è stata attribuita in forma pressoché esclusiva ai
metalli.
Anch'essi sono stati utilizzati originariamente come valori d'uso:
il rame, il bronzo, l'oro, l'argento, il ferro erano innanzi tutto materie prime
per la fabbricazione di utensili e monili.
Ma le loro caratteristiche
fisiche (durezza, divisibilità, ricomponibilità, facile
trasportabilità, ecc.) li rendevano particolarmente adatti a funzionare
da moneta.
Tra tutti vennero poi prescelti quelli detti, per la loro
inossidabilità e inalterabilità, «nobili», ossia l'oro e
l'argento, che agli altri vantaggi univano quello, decisivo, di concentrare in
una quantità relativamente piccola di materia (e cioè in un
piccolo volume e in piccolo peso) un valore di scambio molto alto derivante
dalla loro rarità.
I metalli «preziosi» (preziosi
perché rari) continuarono ad essere impiegati nella fabbricazione di
gioielli e di oggetti di lusso, ma la loro funzione principale divenne
progressivamente quella di moneta, specialmente nella forma di pezzi
«coniati», sui quali cioè venivano impresse figure e scritte a
indicare il peso e la qualità del metallo e l'autorità che se ne
rendeva garante.
Il termine «moneta» viene dal nome della
zecca romana, che era situata presso il tempio di Giunone Consigliatrice, Iuno
Moneta (da monere = «ammonire, consigliare»). La parola latina per
indicare il denaro o, più in generale, la ricchezza, era pecunia: la sua
evidente connessione con pecus, che significa «armento»,
«gregge», «mandria», è testimonianza di un periodo in
cui il bestiame costituiva la forma più generale di ricchezza e poteva
assumere la funzione di moneta. Vale la pena a questo proposito di osservare che
il significato originario pare sia stato proprio quello di ricchezza e che solo
in un secondo tempo pecus abbia finito per designare quella specifica (e
più comune) forma di ricchezza che era il
bestiame.
«Denaro» (dal numerale latino deni = «dieci per
volta») è il nome di un'antica moneta romana del valore di 10 assi.
Anche «soldo» (che al plurale è sinonimo di denaro, ricchezza,
ecc.: Tizio ha fatto i soldi con il commercio, Caio ha speso un sacco di soldi
per la casa) è il nome di una moneta romana, il solidus (nel significato
proprio di «solido, massiccio»), un grosso pezzo d'oro coniato al
tempo dell'imperatore Costantino. Sia «denaro» sia «soldo»
sono stati nel corso dei secoli i nomi di monete di modesto valore. I
«quattrini» (che anche loro al plurale sono sinonimo di ricchezza:
Sempronio ha quattrini a palate) erano monete di rame del valore di 4 denari (da
cui il nome), in uso in Italia a partire dal XIV secolo.
Alcune monete
hanno il nome dell'unità di peso in cui sono state originariamente
coniate. Così, ad esempio, «lira» viene da libbra, ed è
anzi la stessa cosa; allo stesso modo, il termine inglese pound designa sia la
lira sterlina (unità monetaria) sia la libbra (unità di
peso).
I MECCANISMI DELLA PRODUZIONE
1.0 I fattori di produzione.
La
produzione è il processo attraverso il quale si ottengono delle cose
consumandone o utilizzandone delle altre. Le cose prodotte, almeno in linea di
principio, dovrebbero avere una qualche utilità; dovrebbero essere,
cioè, dei beni.
Le risorse spese nella produzione di un bene si
chiamano «fattori di produzione». Il prodotto non è mai la
somma dei fattori impiegati per produrlo, ma qualcosa di completamente diverso e
che, almeno nelle intenzioni del produttore, dovrebbe valere di più di
quanto egli ha speso nel produrlo.
Possiamo immaginare il processo di
produzione come una specie di trasformatore o di cassa magica (anche se di
magico non c'è niente) in cui si introducono certe cose e da cui escono
altre cose. Ciò che viene messo dentro (in inglese: input) è
l'insieme dei fattori di produzione. Ciò che se ne tira fuori (in
inglese: output) è il prodotto (vedi schema 1).
Schema
1

I fattori di produzione si raggruppano di solito in
tre classi: lavoro, risorse naturali e capitale.
Il lavoro è la
fatica, l'abilità manuale, l'esperienza, l'intelligenza, il sapere spesi
nel processo di produzione dalle persone che vi sono addette.
Le risorse
naturali sono i cosiddetti «doni della natura», ossia quei beni che
esistono indipendentemente dal lavoro dell'uomo e che entrano in un modo o
nell'altro nel processo di produzione: la terra (e la sua maggiore o minore
fertilità naturale), l'aria, l'acqua, i giacimenti minerari, le ricchezze
del mare, ecc.
Capitale è qualsiasi cosa prodotta dall'uomo (che non
sia cioè «dono di natura») destinata a produrre altre cose: una
macchina, un attrezzo da lavoro, l'edificio in cui avviene la produzione, la
materia prima destinata a essere lavorata sono capitali o, come anche vengono
chiamati, beni o mezzi di produzione. Naturalmente anche i soldi destinati
all'acquisto di macchine, attrezzi, materia prime, ecc., sono capitali (vedi
schema 2).
Schema 2

1.1 La
distinzione tra lavoro, risorse naturali e capitale non è affatto
rigorosa e uno stesso fattore produttivo può essere fatto rientrare in
classi diverse a seconda dei punti di vista e delle opportunità di
analisi La fertilità del suolo, ad esempio, sarà considerata
risorsa naturale fino a quando non apparirà conveniente ricordare che
anch'essa e, almeno in parte, effetto del lavoro umano e come tale
classificabile tra i beni capitali. Allo stesso modo l'esperienza e
l'abilità del lavoratore, che sono attributi del fattore lavoro, possono
anche essere considerate una forma di capitale, in quanto sono frutto di
addestramento e cioè sono i prodotti di un precedente lavoro e di
precedenti investimenti di capitale (spese per l'istruzione, ecc.). In effetti a
proposito del lavoro (e del lavoro qualificato in particolare, per il quale i
costi di addestramento risultano particolarmente elevati) si parla spesso di
«capitale umano».
2.0 La riproduzione del sistema
Il
prodotto ottenuto alla fine di un ciclo di produzione costituisce una ricchezza
che può essere consumata oppure spesa nella produzione di nuova
ricchezza, ossia investita. Così, ad esempio, il grano raccolto al
termine di un ciclo produttivo può essere in parte consumato e in parte
destinato a servire da semente nel prossimo ciclo. Il grano sottratto al consumo
e destinato alla produzione di nuovo grano costituisce un capitale e il suo
impiego come semente è quel che si dice «un investimento di
capitale».
I prodotti che sono destinati al consumo vanno a
reintegrare la risorsa «lavoro». Gli investimenti reintegrano invece
la risorsa «capitale». In questo modo il flusso della produzione si
chiude in un doppio circuito, attraverso il quale il sistema produttivo si
riproduce di ciclo in ciclo (vedi schema 3).
Schema 3

Se all'inizio di un ciclo la situazione delle risorse è
più o meno la stessa del ciclo precedente si parla di «riproduzione
semplice». Se invece le quantità disponibili dei fattori di
produzione tendono ad aumentare (e di conseguenza tendono ad aumentare i valori
prodotti) si parla di «riproduzione allargata».
2.1 Anche
la distinzione tra consumi e investimenti non è sempre rigorosa. La zuppa
che il padrone dà al bracciante che gli raccoglie il grano, dal punto di
vista del bracciante è un bene di consumo, ma da quello del padrone
è un investimento.
3.0 Un modello per l'analisi dei sistemi
economici
Ogni sistema produttivo, anche quello apparentemente più
semplice (per esempio una piccola azienda contadina), è un meccanismo
complesso. Per capire e per far capire come funziona un meccanismo complesso si
può costruirne un modello e cercare di farlo funzionare (si può
cioè simularne il funzionamento). Abbiamo già fatto qualche
esempio in materia ed abbiamo già detto che i modelli di simulazione sono
copie o rappresentazioni semplificate degli originali. Se non fossero
semplificate non varrebbe davvero la pena di costruirli: sarebbero come quella
fantastica carta topografica di cui parla lo scrittore argentino Jorge Luis
Borges, che era stata costruita alla scala 1:1, e che perciò era grande
quanto il territorio che doveva rappresentare. L'importante è che, a
forza di semplificazioni, il modello non finisca con il perdere qualsiasi
somiglianza con l'originale.
Anche per costruire il nostro modello di
sistema produttivo ci serviremo dunque di alcune ipotesi semplificatrici. Ci
limiteremo innanzi tutto a prendere in considerazione una sola attività
produttiva, quella agricola, trascurando per il momento tutte le altre: il
nostro modello si riferisce dunque soltanto ad aziende agricole. Supporremo poi
(almeno in prima istanza) che nelle nostre aziende si coltivi un solo prodotto:
il grano. Essendoci un solo prodotto, ci sarà, per forza di cose, un solo
bene di consumo: i personaggi del nostro modellino dovranno nutrirsi solo di
grano.
3.1 Naturalmente non si tratterà di frumento
«vero». Per essere consumato dall'uomo il frumento, quello vero, deve
essere manipolato, per esempio in forma di pane, e cioè associato ad
altre cose come lievito, L'acqua, il sale, ecc.: già questo esclude che
il frumento possa essere realmente l'unico genere di consumo. La fabbricazione
del pane, poi, richiede un'attrezzatura adeguata (un forno, ad esempio) e
implica il consumo di una certa quantità di combustibile. Infine non si
vive di solo pane, e anche ammesso che il frumento possa sostituire qualsiasi
altro cibo, l'uomo ha bisogno di molte altre cose, come vestiti, abitazioni,
ecc., che non sono certo fatte di frumento.
È sempre possibile,
però, attribuire a tutti gli altri generi di consumo un valore
equivalente a quello di una certa quantità di frumento. Il frumento di
cui parleremo, dunque, è un bene convenzionale, che esprime il valore del
frumento «vero» e di tutti gli altri beni effettivamente prodotti e
consumati.
3.2 Abbiamo pensato che il genere più adatto a
svolgere nel nostro modello la funzione di unico prodotto e di unico bene di
consumo fosse il frumento. Invece del frumento avremmo potuto scegliere un
qualsiasi altro bene, come le capre, ad esempio, o le noci di cocco (che in
certi luoghi e in certi tempi hanno effettivamente funzionato come equivalente
generale di qualsiasi bene). Il frumento però presenta alcuni
vantaggi:
a) il frumento e, almeno in Europa, quasi un prodotto-simbolo
dell'attività agricola: è stato coltivato in ogni regione europea
fin da tempi antichissimi ed è il più nobile e il più
diffuso dei cereali, i quali (a loro volta) hanno rappresentato la porzione di
gran lunga più consistente della produzione agricola. È stato
detto che fino a due o tre secoli fa l'agricoltura europea era una sorta di
monocoltura cerealicola.
b) Il frumento è stato in ogni epoca una
componente di rilievo nell'alimentazione degli Europei. Spesso nella dieta degli
Europei sul frumento prevalevamo altri cereali di minore valore economico e
alimentare, l'orzo, l'avena, la segale, ma è facile trovare l'equivalenza
(sia in termini economici, sia in termini nutritivi) di questi cereali con il
frumento.
c) Sino a tempi non troppo lontani dai nostri i consumi
alimentari hanno rappresentato in Europa la parte di gran lunga più
consistente dei consumi globali. Il frumento, dunque, che era la componente
più importante dei consumi alimentari, è stato davvero per gli
Europei il genere di consumo più diffuso e più importante.
d)
Il frumento può essere scambiato facilmente e in qualsiasi proporzione
con qualunque altra merce, il che facilita le nostre operazioni di misura. Se,
invece del frumento, come equivalente generale di ogni bene avessimo scelto, per
esempio, le capre, ci saremmo trovati di fronte a una difficoltà in
più. Stabilito il valore di una capra, infatti, non avremmo potuto
operare con frazioni di questo valore: mezza capra non vale la metà di
una capra, perché per avere mezza capra bisogna uccidere la capra intera,
e una capra morta è un bene completamente diverso da una capra
viva.
Il carattere pressoché «universale» del frumento
rende meno imbarazzante l'idea di una popolazione (come quella del nostro
modello) che non si nutre d'altro che di frumento e non fa altro che produrre
frumento. Naturalmente, se ci trovassimo, per esempio, in Cina, al posto del
frumento avremmo scelto il riso e la simulazione sarebbe riuscita anche
più realistica della nostra, dato il ruolo assolutamente dominante del
riso nei consumi alimentari di molte popolazioni asiatiche.
4.0
Qualche altra ipotesi semplificatrice
Sempre per rendere le cose più
semplici, supponiamo ancora che:
(4.0.1) le risorse naturali impiegabili
nella produzione si riducano alla terra, ossia alla superficie
seminata;
(4.0.2) i beni capitali investiti nella produzione si riducano
alla sola semente e siano pertanto costituiti sempre e soltanto da frumento. Nel
nostro schema li indicheremo con KS.
4.1 La prima ipotesi è
tutt'altro che irrealistica. Fino al Settecento e ancora nell'Ottocento gli
economisti non parlavano affatto di «risorse naturali», ma senz'altro
di «terra», perché la terra era di gran lunga la risorsa
naturale più importante. Non c'è davvero da stupirsi che, in una
società fondamentalmente agricola com'era fino a un paio di secoli fa
quella europea, la terra e la sua fertilità fossero l'immagine più
concreta dei cosiddetti «doni della natura».
4.2 La seconda
ipotesi può sembrare un'assurdità: è difficile infatti
immaginare che si possa lavorare la terra e produrre del frumento senza
attrezzi, senza macchine, senza animali da lavoro. Ma questa ipotesi deriva
necessariamente dalle ipotesi che abbiamo formulato nel paragrafo precedente
(3.0). Se l'unico bene che può essere prodotto e consumato e il frumento,
anche i beni capitali dovranno essere costituiti da frumento. D'altra parte il
frumento è effettivamente un bene capitale quando viene utilizzato come
semente. Infine, nei sistemi agricoli relativamente elementari, come quelli di
cui ci occuperemo almeno in un primo momento, la semente costituiva davvero il
grosso degli investimenti. In Europa il valore degli altri beni capitali
(attrezzi e animali da lavoro) è rimasto assai modesto e talvolta
addirittura trascurabile sino al XII o XIII secolo. Soltanto a partire dal XVIII
secolo, con l'avvento dell'agricoltura che possiamo chiamare
«scientifica» e con la progressiva meccanizzazione dell'agricoltura il
peso di quei fattori è diventato determinante.
5.0 Lo schema
di base
Con le lettere L, T, KS e Q indichiamo quantità qualsiasi di
lavoro, di terra seminata, di capitali (ossia, in forza delle nostre ipotesi
semplificatrici, di semente), di prodotto. Si tratta di quantità
qualsiasi e perciò le chiamiamo variabili.
Le variabili possono, per
definizione, assumere qualunque valore. Se però diamo ad una di queste
variabili un valore, tutte le altre assumeranno determinati valori e non altri.
In altre parole, tra le variabili L, T, KS, Q ci sono dei rapporti fissi (o
almeno relativamente fissi) che chiamiamo parametri e che, come vedremo,
dipendono dal livello delle tecniche produttive e dalla forma
dell'organizzazione sociale (vedi schema 4).
Schema 4

L'insieme delle variabili L, T, KS, Q e dei parametri che le
legano insieme costituiscono un sistema di relazioni. Nello schema che
rappresenta tale sistema, le variabili sono racchiuse in rettangoli, i parametri
sono raffigurati da linee continue orientate.
L'orientamento delle linee
che nello schema 4 uniscono le variabili (e quindi rappresentano i parametri)
sta a indicare che, se conosciamo la quantità di una variabile (per
esempio L), per trovare il valore di un'altra variabile (per esempio Q) dobbiamo
moltiplicare la prima per il parametro corrispondente (qL):
Q = L x
qL
Naturalmente se si vuoi procedere in senso inverso da quello
indicato dalla freccia, ossia se, conoscendo Q e qL si vuol trovare L,
anziché moltiplicare occorrerà dividere:
L = Q :
qL
I parametri rappresentati nello schema sono:
(5.0.1) l = T : L è la superficie di terreno lavorata
da una unità di lavoro; la chiamiamo
capacità di lavoro;
(5.0.2) d = KS : T è la quantità di frumento seminata su
una unità di superficie, la chiamiamo
densità della semente;
(5.0.3) r = Q : KS è la quantità di prodotto per unità
di semente; la chiamiamo rendimento
della semente;
(5.0.4) qL = Q : L è la quantità di prodotto per unità di
lavoro; la chiamiamo produttività del
lavoro;
(5.0.5) qT = Q : T è la quantità di prodotto per unità di
superficie; la chiamiamo produttività
della terra.
5.1 Con T indichiamo la
superficie semina. Non tutta la terra disponibile, però, può
essere seminata ogni anno: una parte deve essere tenuta a maggese perché
la sua fertilità si ricostituisca. Se chiamiamo TD la terra disponibile,
il rapporto tra la terra seminata ogni anno e la terra disponibile
sarà:
m = T : TD
come si rappresenta nel nostro
schema 5:
Schema 5

Con una
rotazione biennale (un anno a coltura e uno a maggese) solo la metà della
terra disponibile risulterà coltivata ogni anno (m = 0,5). Con una
rotazione triennale (due anni a coltura e uno a maggese) la terra seminata ogni
anno sarà pari ai due terzi della terra disponibile (m = 0,66) e
così via. È evidente che T non può essere maggiore di TD e
che m non può essere maggiore di 1.
5.2 Se, come speriamo, ci
siamo spiegati bene, i nostri lettori a questo punto avranno capito come
funziona il modellino che stiamo costruendo. Non dovrebbe, allora, essere
difficile sostituire negli schemi riprodotti a e b i punti interrogativi con dei
valori numerici. In caso di difficoltà non c'è altro da fare che
rileggere il § 5.0.
a)

b)

5.3
Meriterebbero un premio quelli che a questo punto si sono accorti
che
(5.3.1) qT = d x r
e che
(5.3.2) qL = l x d
x r
Chiameremo l, d, r «parametri tecnici» perché in
effetti essi dipendono dai metodi e dagli strumenti di lavoro.
5.4
Prima dell'adozione del sistema metrico decimale (che risale a non più di
due secoli fa) la capacità di lavoro è stata spesso utilizzata per
misurare le superfici agrarie. Lo iugero dei Romani, ad esempio, era la terra
che poteva essere arata in un giorno con una coppia di buoi: la parola deriva da
iugum che vuol dire appunto «coppia di buoi». Altri esempi sono il
francese arpent (che si misurava in giornate di lavoro) o l'italiano
«giornata», ma misure di superficie dello stesso tipo, basate
cioè sul tempo di lavoro, si trovano in ogni regione d'Europa (e anche
fuori dell'Europa).
Lo iugero corrispondeva pressappoco a 2500 metri
quadrati. Il pressappoco è d'obbligo con questo genere di misure che
esprimono lo spazio in termini di tempo e l'estensione in termini di durata Le
superfici dei campi misurati in giornate di lavoro variavano infatti
sensibilmente a seconda del tipo di coltura (cereali, vigne, prati), del tipo di
lavoro (aratura, falciatura, ecc.), degli strumenti impiegati (aratro leggero o
pesante; tirato da buoi, da cavalli o da trattori, ecc.), della qualità
della terra, ecc. In qualche caso c'erano perfino misure invernali e misure
estive, giacché in inverno la giornata di lavoro è più
breve che in estate. Non si trattava di misure imprecise: c'era semmai un
eccesso di precisione. Quanto alla diversa estensione di una giornata di
terreno, non costituiva un grosso inconveniente: al contrario, il vantaggio di
questo tipo di misure consisteva appunto nell'esprimere immediatamente
l'equivalenza, in termini di lavoro, tra terreni di qualità e di
superficie diverse, che era poi proprio quel che importava sapere.
Una
funzione analoga a quella delle misure fondate sul tempo di lavoro e stata
svolta nei secoli passati dalla densità di semente. Il valore di un
terreno è evidentemente connesso al suo prodotto annuo. A causa
però delle variabili condizioni climatiche le quantità raccolte
sullo stesso campo cambiano ogni anno e in modo imprevedibile. Le
quantità seminate restano invece sempre le stesse e sono pertanto un buon
indice del prodotto medio e quindi del valore del terreno. Nella campagna
romana, per esempio, il rubbio era sia un'unità di superficie, sia
un'unità di capacità per granaglie: un rubbio di terreno era la
superficie sulla quale poteva essere seminato un rubbio di grano. Anche in
questo caso l'estensione di un rubbio di terra poteva variare notevolmente da un
luogo a un altro. In linea generale, infatti, una terra di buona qualità
consente una semina più fitta di una terra di cattiva qualità, il
che significa che, a parità di superficie, la quantità di semente
sulla terra buona sarà più alta che sulla terra cattiva, mentre a
parità di semente l'estensione del terreno seminato sarà minore
sulla terra di buona qualità e maggiore in quella di cattiva
qualità.
6.0 Un semplice sistema di equazioni
Un sistema
di relazioni come quello rappresentato nello schema 4 può essere espresso
da una serie di equazioni. Se per ogni unità di semente Tizio ha ottenuto
otto unita di prodotto, possiamo esprimere la cosa con la seguente
equazione:
(a) Q = K x 8
Se nello stesso ciclo produttivo
Tizio ha raccolto IQ unità di prodotto per ogni unità di
superficie, possiamo esprimere la cosa con la seguente equazione:
(b)
Q = T x 10
Confrontando le equazioni (a) e (b) possiamo sapere quanta
semente è stata adoperata da Tizio per ogni unità di superficie.
Secondo la (a) il prodotto è
Q = K x 8
e secondo la
(b) è
Q = T x 10
sicché
(c) K x 8
= T x 10
e quindi
(d) K = T x 10 : 8 = T x
1,25
6.1 I nostri lettori dovrebbero domandarsi se le affermazioni
che seguono sono verosimili o inverosimili. Potrebbero domandarlo anche ad altri
e fare così un piccolo sondaggio di opinioni.
Per conoscere le
risposte esatte non c'è che da consultare un po' di libri. Ma quali
saranno i libri adatti?
Ecco una buona domanda, a cui i nostri lettori
potrebbero cercare di rispondere con un'altra piccola inchiesta.
Nel
1857 Il signor Titta Oneto nella sua villa di Trecase, avendo seminato 3
quintali di frumento ha ottenuto un raccolto di quasi trenta
quintali.
È verosimile?
Tra il 214 e il 233 d.C. nella
provincia romana della Bitinia il rendimento medio della semente è stata
per il frumento di 9,8 a 1, con un aumento rispetto al ventennio precedente
(194-213 d.C.) di quasi l'8 per cento.
È verosimile?
Nel
1985 il signor Tom Jones di Littlefield nel Kansas è stato premiato dalla
locale Associazione patriottica tra i coltivatori di frumento per aver ottenuto
il più alto rendimento della terra di tutto il distretto (e uno dei
più alti dello stato): 12,8 quintali per ettaro.
È
verosimile?
6.2 Un problema per i lettori più volonterosi. Un
grande latifondista romano del II secolo d.C. possiede 1000 ettari di terreno in
Sicilia, 1000 ettari di terreno in Etruria e 1000 ettari di terreno in Egitto.
Delle sue aziende conosciamo alcuni parametri tecnici:
+----------------------------------------------------------------+
¦ d r qT ¦
¦ quintali per ettaro quintali per ettaro ¦
+----------------------------------------------------------------¦
¦Sicilia 1,4 8 11,2 ¦
¦Etruria 1,2 10 12 ¦
¦Egitto 0,7 10 7,5 ¦
+----------------------------------------------------------------+
Si
tratta di ottime terre, con rese medie molto alte per l'epoca. Si vuol sapere
quale delle tre aziende produce di più, tenuto conto che in Sicilia e in
Etruria si pratica la rotazione biennale (m = 0,5), mentre in Egitto, per
effetto del limo depositato dalle piene del Nilo, è possibile seminare la
terra tutti gli anni senza interruzione (m = 1).
7.0 La popolazione
attiva
L'esistenza della risorsa lavoro, ossia la disponibilità di
una certa quantità di manodopera (L), implica l'esistenza di una
popolazione (P) comprendente anche individui che non sono inseriti nel processo
produttivo (vecchi, bambini, malati, invalidi, ecc.).
Chiamiamo «tasso
di attività» (a) il rapporto tra forza-lavoro disponibile (o
«popolazione attiva») e la popolazione complessiva:
(7.0.1)
a = L : P
ovvero:
(7.0.2) L = a x P
che
graficamente possiamo rappresentare con lo schema 6:
Schema
6

7.1 Il tasso di attività
dipende dalla struttura per classi di età della popolazione e da
peculiari condizioni sociali e culturali. Così, quanto più alta
è la percentuale dei giovanissimi non ancora in grado di lavorare (o dei
vecchi che non sono più in grado di lavorare), tanto più basso
sarà il tasso di attività. La regolamentazione del lavoro
minorile, ritardando o rendendo più difficile l'inserimento dei ragazzi
nel mondo della produzione, tende ad abbassare il tasso di attività di
una popolazione. Lo stesso effetto possono avere particolari abitudini o regole
di comportamento sociale come quelle che considerano sconveniente il lavoro per
determinate categorie di persone (gli aristocratici, i preti, le donne,
ecc.).
7.2 La popolazione attiva ossia quella parte della popolazione
che è in grado di lavorare, non coincide necessariamente con la forza
lavoro occupata; può esservi infatti una certa quota della manodopera
disponibile che resta inutilizzata. Almeno in prima approssimazione,
però, considereremo la popolazione attiva (L = a x P) come interamente
occupata.
8.0 Il fabbisogno minimo
Se chiamiamo (f) la
quantità minima di beni di consumo (espressa in quintali di frumento)
necessaria in media ad assicurare la pura sopravvivenza di un uomo, il
fabbisogno minimo totale (F) della popolazione (P)
sarà:
(8.0.1) F = f x P
Graficamente possiamo
rappresentare l'insieme delle relazioni tra la popolazione (P), la forza lavoro
(L) e il fabbisogno globale (F) con lo schema 7:
Schema
7

8.1 Per convenzione possiamo fissare il
fabbisogno minimo pro capite (f) a tre quintali di frumento. È solo una
convenzione ma, crediamo, non troppo lontana dal vero.
9.0 I
consumi
Se (C) è la quantità di beni globalmente disponibile
per il consumo della popolazione (P), il consumo pro capite (c)
sarà:
(9.0 1) c = C : P
Il rapporto tra consumi
effettivi e fabbisogno minimo necessario alla sopravvivenza della popolazione
dà l'indice di benessere (b) della popolazione stessa:
(9.0.2)
b = C : F = c : f
da cui si ricava che il consumo pro capite (c)
è determinato dal fabbisogno minimo pro capite (f) e dall'indice di
benessere (b):
(9.0.3) c = f x b
Graficamente le relazioni
tra fabbisogno (F) e consumi (C) della popolazione (P) sono rappresentate dallo
schema 8:
Schema 8

9.1 Il consumo
pro capite (c) non e che un valore medio. In prima approssimazione ci
accontenteremo di questo valore senza preoccuparci della distribuzione effettiva
dei consumi nella popolazione. È bene tuttavia ricordare che le medie
costituiscono un singolare tipo di dati statistici, in forza del quale (come
dice una vecchia battuta) se tu mangi un pollo e io resto a guardare, risulta
che in media abbiamo mangiato mezzo pollo a testa.
9.2 Quando
l'indice di benessere (b) assume valori inferiori a 1 vuol dire che i consumi
(C) sono scesi al disotto del livello di sopravvivenza (F). Vuol dire, insomma,
che c'è una «carestia», sicché una parte della
popolazione è destinata ad essere eliminata (per morte o per
emigrazione). La popolazione continua a diminuire fino a quando non si
ristabilisce un equilibrio tra bisogni (F) e risorse (C), fino a quando,
cioè, l'indice di benessere non torna al di sopra di 1.
10.0
Il costo del lavoro
Se la disponibilità della forza lavoro (L)
dipende dall'esistenza della popolazione (P) e questa a sua volta dal volume
globale dei consumi (C), il costo medio (s) dell'unità di lavoro
sarà:
(10.0.1) s = C : L
Graficamente le relazioni
tra la forza lavoro (L), la popolazione (P), il fabbisogno globale (F) e i
consumi (C) sono rappresentate dallo schema 9:
Schema
9

10.1 Dallo schema 9 si ricava
facilmente che il costo unitario medio del lavoro (s) è dato dal rapporto
tra il consumo unitario medio (c) e il tasso di attività (a) della
popolazione:
(10.1.1) s = c : a
e cioè (per la
9.0.3):
(10.1.2) s = f x b : a
Poiché, come abbiamo
visto al § 9.2, l'indice di benessere non può scendere al disotto di
I senza provocare l'eliminazione di una parte della popolazione, il costo
unitario minimo del lavoro (sm), che potremmo chiamare «il salario di
sopravvivenza», sarà:
(10.1.3) sm = b x a
11.0
Oneri e disponibilità
Come si è detto al § 2.0, al
termine di ogni ciclo di produzione, il prodotto viene destinato parte ai
consumi e parte agli investimenti. Può capitare, però, che una
certa quota del prodotto non sia disponibile né per consumi né per
investimenti a causa di oneri, perdite o prelievi diversi: tasse e tributi
pretesi dai funzionari del re o dai sacerdoti del tempio, danni sofferti ad
opera di una banda di saccheggiatori, canoni di affitto da pagare al padrone
della terra, ecc. La disponibilità effettiva di beni (D) sarà
dunque tanto minore quanto maggiori saranno gli oneri (O) gravanti sul sistema
produttivo:
(11.0.1) D = Q - O
D'altra parte nelle
disponibilità deve essere calcolato anche l'ammontare delle eventuali
riserve o scorte (KR) accantonate nei precedenti cicli di produzione. La
disponibilità effettiva (D) sarà dunque:
(11.0.2) D = Q
+ KR - O
Nello schema 10 il prodotto (Q), gli oneri (O), le scorte
(KR) e le disponibilità (D) sono collegate da linee tratteggiate e
orientate: le quantità relative vanno sommate quando le linee convergono,
e vanno sottratte quando le linee divergono:
Schema
10

12.0 Consumi e
investimenti
Lo schema 11 rappresenta la distribuzione dei beni disponibili
tra consumi (C) e investimenti (1): i primi, come si è detto al 2.0,
vanno a reintegrare il fattore «lavoro» (L) e i secondi il fattore
«capitale» (K). I capitali sono costituiti dalla semente (KS)
necessaria per il nuovo ciclo produttivo, dalle scorte o riserve (KR) che si
accantonano per far fronte a bisogni imprevisti, e infine da tutti gli altri
beni di produzione (KA), come possono essere utensili, macchine, bestiame da
lavoro, concimi, edifici, impianti, ecc. Come abbiamo detto al § 4.0.2, di
tutti questi altri beni, per semplicità e in via di prima
approssimazione, non terremo alcun conto. È opportuno, però, che
nel nostro schema se ne conservi memoria.
Schema
11

13.0 Lo schema
completo
Combinando gli schemi 4, 5, 9, 10, 11 otteniamo come si può
vedere nello schema 12 il ciclo produttivo completo.
Schema
12

13.1 Problema. Calcolate il
rendimento minimo della semente che consente la sopravvivenza di un'azienda in
cui non esistono scorte (KR = 0) né oneri di alcun genere (O = 0) e che
presenta i seguenti parametri
a = 0,6
l = 2 ettari per uomo
d = 1,1 quintali per ettaro
f = 3 quintali per anno
13.2 Problema. Calcolate quali
canoni (O) è in grado di pagare al padrone un'azienda colonica composta
di dieci persone (P = 10) e che presenta i seguenti parametri:
a = 0,6
l = 2 ettari per uomo
d - 1,1 quintali per ettaro
r = 4
f = 3 quintali per anno
13.3 Problema. Calcolate il
rendimento minimo della semente in un'azienda colonica in cui il canone dovuto
al padrone è pari alla metà del raccolto (O = Q : 2) e che
presenta i seguenti parametri:
a = 0,6
l = 2 ettari per uomo
d = 1,1 quintali per ettaro
f = 3 quintali per anno
14.0 Annate buone e annate
cattive
Pur restando invariate le condizioni tecniche e sociali in cui
opera un'azienda (e cioè senza che i parametri fondamentali cambino
sensibilmente) il rendimento della semente (r) può cambiare moltissimo di
anno in anno per effetto di fattori diversi, in parte estranei all'azienda
stessa, come eventi metereologici, catastrofi naturali, malattie delle piante,
ecc. Quello che resta relativamente costante è il rendimento medio della
semente, ma i rendimenti reali oscillano intorno a questo valore medio. Ci sono
insomma, come tutti sanno, annate buone e annate cattive. Come insegna anche la
Bibbia, è opportuno negli anni delle vacche grasse metter da parte
qualcosa per gli anni delle vacche magre ed è questa la ragione che
spinge alla formazione di scorte (KR).
L'ampiezza delle oscillazioni
intorno a valori medi del rendimento della semente influisce però
direttamente non solo sulla formazione di scorte, ma su tutta la vita
dell'azienda, come dovrebbe risultare dall'esercizio che segue.
14.1
Prendiamo in considerazione l'andamento quinquennale di due aziende che nel
primo anno si presentano uguali in tutto. La situazione iniziale delle due
aziende è rappresentata nello schema 13.
Schema
13

Tutti i parametri restano
costanti nei quattro anni successivi al primo, tranne il rendimento (r). In
entrambe le aziende il rendimento oscilla intorno a 4 (ossia entrambe hanno lo
stesso rendimento medio), ma l'ampiezza delle oscillazioni è maggiore
nella prima, come risulta dalla seguente tabella:
1° anno 2° anno 3° anno 4° anno 5° anno
prima
azienda 4 2 3 6 5
seconda
azienda 4 3 3,5 5 4,5
Tutto
ciò che eccede il fabbisogno minimo (p) viene destinato alla formazione
di scorte (KF). Se invece di una eccedenza risulta un deficit, poiché
consideriamo le due aziende come perfettamente isolate (non in grado,
cioè, di ricevere aiuti o prestiti dall'esterno) sarà necessario
espellere una quota di popolazione. Il gioco consiste nel calcolare le
disponibilità delle due aziende alla fine di ogni anno e di provvedere
all'espulsione della quota eventualmente eccedente di popolazione.
Alla
fine del quinquennio quale delle due aziende sarà riuscita a difendere
meglio la propria popolazione?
14.2 Facciamo riferimento sempre
all'esercizio del § 14.1. La prima azienda nel secondo anno presenta un
deficit che costringe a eliminare un certo numero di consumatori. Ma quanti
esattamente? C'è un modo per determinare in casi come questi la quota di
popolazione da espellere?
È un problema (come si suol dire) di
allocazione di risorse o (come anche si dice) di efficienza economica. In
sostanza si tratta di impiegare le risorse esistenti nel modo migliore. Le
risorse esistenti non arrivano a coprire il fabbisogno minimo della popolazione
esistente e i quantitativi necessari alla nuova semina. Si può
scrivere.
D < F + KS
(le disponibilità sono
inferiori al fabbisogno più la semente).
Ci sono due rischi
che bisogna evitare: quello di accantonare troppa semente e quindi di eliminare
più gente del necessario (il che significherebbe, tra l'altro, che non
essendoci manodopera sufficiente parte della semente accantonata andrebbe
sprecata); e quello di trattenere troppa sente con la conseguenza di consumare
anche parte della semente che dovrebbe invece essere accantonata per il nuovo
ciclo produttivo.
Cercate la soluzione prima per tentativi dando dei valori
che alle variabili dello schema 14 (2° anno), e poi (se siete capaci di
lavorare con sistemi di equazioni di primo grado) trovate la formula che indica
il livello ottimale di popolazione (quello, cioè, che minimizza le
perdite).
Schema 14